Gorizia è stata la città dei commercianti e dei soldati, degli artigiani e dei funzionari, dei nobili e dei contadini. Qui, nel giro di pochi isolati, si potevano ascoltare il tedesco degli ufficiali imperiali, lo sloveno dei quartieri popolari, il friulano delle campagne, l’italiano delle élite borghesi, l’ebraico delle preghiere nel Ghetto. Una babele mite, stratificata, che per secoli ha rappresentato la normalità.
Poi sono arrivati i confini, e con loro le fratture, le rimozioni, le semplificazioni. Le scuole slovene furono chiuse, i nomi cambiati, le parole diverse silenziate. Gorizia si è lentamente trasformata in una città che dimentica.
A chi arriva oggi per la prima volta, Gorizia può apparire ordinata, sobria, quasi austera. Ma dietro i suoi palazzi neoclassici, dietro i portici silenziosi e le insegne uniformate, manca qualcosa. Manca la memoria visibile della sua pluralità.
Le strade non raccontano più tutte le lingue che le hanno percorse. I toponimi originari sono stati cancellati. I segni delle convivenze, delle contaminazioni, dei conflitti e delle paci quotidiane sono sbiaditi, nascosti dietro una narrazione lineare e rassicurante. Eppure Gorizia, chi la conosce davvero lo sa, non è mai stata lineare. È una città porosa, irregolare, complessa. Ed è proprio lì, in quella complessità, che risiede la sua vera bellezza.
Ora, con il titolo di Capitale Europea della Cultura 2025, condiviso con Nova Gorica, si apre una possibilità concreta: quella di ricucire il racconto interrotto. Di restituire alla città il diritto di mostrarsi per ciò che è sempre stata: una soglia, un ponte, un crocevia.
Perché non cominciare da un gesto semplice ma visibile? Perché non tornare a scrivere la città in tutte le sue lingue? Una targa bilingue, un pannello narrativo, un’indicazione stradale che riporti anche il toponimo storico: sono piccoli atti, ma hanno un enorme valore simbolico. Non si tratta di folklore, né di nostalgia. Si tratta di giustizia storica, di educazione civica, di riconoscimento.
La memoria non vive solo nei libri o nei monumenti: vive nei muri, nei nomi delle vie, nelle parole che scegliamo di rendere pubbliche. È nei dettagli, nei segni, nei suoni che lasciamo risuonare nello spazio urbano.
Per troppo tempo Gorizia ha guardato solo a una parte della sua storia, rimuovendo tutto il resto. Eppure è proprio quel “resto” a renderla unica. Non basta dire che siamo eredi di una vicenda complessa: bisogna mostrarlo. Con onestà, con coraggio, con apertura. Solo così Gorizia potrà smettere di essere una città divisa dal suo passato e iniziare a raccontarsi per quello che è: molteplice, viva, profondamente vera.
Se vogliamo che il confine smetta di essere una linea che separa e torni a essere uno spazio che connette, dobbiamo iniziare proprio da qui: dalle lingue che ci abitano.