Guido Fink ovvero lo sguardo oltre il confine

Da Gorizia a Ferrara, dal cinema alla memoria: la storia di un critico che ha attraversato il Novecento con grazia e lucidità. Chi conosce Gorizia sa che è una città fatta di soglie: tra lingue, tra storie, tra destini. Eppure, non sempre riconosce i suoi figli migliori. Guido Fink, nato qui nel 1935, è uno di quelli che la città ha lasciato andare senza mai davvero valorizzarlo. Eppure il suo sguardo, profondo e discreto, ha attraversato il Novecento con intelligenza e grazia. Chi nasce a Gorizia impara presto a leggere i confini. E Fink lo ha fatto, forse troppo presto. In questo post voglio raccontarvi la sua storia. Una storia che unisce la mia passione per Il giardino dei Finzi-Contini, per il cinema, e per quei frammenti di memoria che resistono al tempo.

Nato nel 1935 in una famiglia ebraica goriziana, Guido Fink fu costretto a lasciare la città all’età di due anni, dopo l’emanazione delle leggi razziali fasciste. La famiglia si rifugiò a Ferrara, ed è lì che Guido, ancora bambino, conobbe Giorgio Bassani.

Nel novembre del 1943, all’età di otto anni, Guido e sua madre riuscirono a sfuggire a un rastrellamento fascista. Una notte di paura, raccontata anni dopo a Bassani con tale intensità che divenne racconto – Una notte del ’43 – e poi film, La lunga notte del ’43 di Florestano Vancini. Ma quella notte non segnò solo una fuga. Fu l’inizio di un percorso critico e umano straordinario. A soli diciassette anni, Fink scriveva già recensioni cinematografiche per L’Unità e La Nuova Scintilla. Il suo sguardo era già quello che avrebbe mantenuto per tutta la vita: preciso, letterario, mai compiaciuto. Capace di tenere insieme cinema e impegno civile, con una particolare predilezione per il cinema americano e mitteleuropeo.

Laureato in Letteratura inglese a Bologna, collaborò per oltre quindici anni con Cinema Nuovo, poi insegnò nelle più importanti università americane – Columbia, UCLA, Princeton, Berkeley – diventando un ponte tra culture. Dal 1999 al 2003 fu direttore dell’Istituto Italiano di Cultura a Los Angeles.

Nei suoi scritti – oggi raccolti in La doppia porta dei sogni – il cinema è sempre parte di un sistema più grande: storia, letteratura, psicanalisi. Una visione interdisciplinare ante litteram, fondata non su mode accademiche, ma su una profonda esperienza biografica e culturale.

E poi, un ultimo gesto d’amore: la sua biblioteca personale, insieme a riviste, articoli, e materiali di studio, è stata donata alla Cineteca di Bologna dalla moglie Daniela e dal figlio Enrico. Un archivio vivo, accessibile, che racconta più di una carriera: racconta una visione del mondo.

Rileggere oggi Guido Fink – la sua voce, la sua storia – significa anche rileggere Gorizia. Una Gorizia che forse ha dimenticato alcuni dei suoi figli migliori. Una Gorizia che può ancora riconoscersi nel suo sguardo aperto, ironico, profondo.

Perché, come lui stesso ha scritto, “imparare a vedere è un esercizio etico, prima che estetico”. E io credo che da qui, da questa città di confine, possiamo ancora imparare a vedere meglio.

Controlli al confine italo-sloveno prorogati fino a dicembre 2025: il Giubileo tra sicurezza e chiusura

Il 18 giugno 2025 doveva segnare una svolta. Era la scadenza dell’ultima proroga dei controlli al confine terrestre tra Italia e Slovenia, attivi fin dal 21 ottobre 2023. Ma quella soglia simbolica è passata in silenzio. Nessuna svolta. Nessuna apertura. L’Italia ha scelto di prorogare i controlli fino al 18 dicembre 2025. La motivazione resta quella di sempre: la sicurezza. E non è una novità nemmeno il riferimento al Giubileo del 2025. Era già stato indicato come potenziale fattore di rischio nella precedente estensione, quella che aveva portato la scadenza proprio al 21 giugno. Oggi si conferma la stessa linea, come se la rotta balcanica, il timore di attentati e l'afflusso di pellegrini a Roma potessero giustificare un confine che torna a esistere, a pesare, a dividere.

Eppure, il Giubileo — almeno nelle intenzioni — dovrebbe unire. Dovrebbe rappresentare un tempo di apertura, di pellegrinaggio, di fraternità. Invece, nella realtà che viviamo qui a Gorizia, il Giubileo entra dalla porta della diffidenza, sotto forma di giustificazione per mantenere un confine che da due anni ha smesso di essere simbolico.

Per chi abita queste terre, per chi vive il confine ogni giorno — non come idea, ma come realtà concreta — la proroga non è un dettaglio tecnico. È un gesto politico. È un segnale. E stride profondamente con tutto ciò che GO!2025 sta cercando di costruire. Ci troviamo in un anno in cui Gorizia e Nova Gorica si propongono come capitale europea della cultura. Parliamo di incontri, di dialogo, di convivenza. Ma lo facciamo mentre si continua a controllare chi passa da una parte all’altra della città.

La Slovenia, va detto, non ha adottato alcun controllo nei confronti dell’Italia. I suoi provvedimenti si riferiscono solo ai confini con Croazia e Ungheria. Quello tra Italia e Slovenia resta, per ora, un confine vigilato a senso unico.

E allora vale la pena domandarsi: che tipo di Giubileo ci aspetta? Che senso ha parlare di accoglienza, se contemporaneamente blindiamo le vie d’accesso? Quanto è sostenibile, culturalmente e umanamente, un’Europa che celebra l’unione da una parte e la sospende dall’altra? A questo punto la domanda vera non è più: fino a quando, ma: che prezzo siamo disposti a pagare per sentirci più sicuri?

Gorizia, 1915: chi erano davvero gli irredentisti?

Gorizia, 1915. C'è una parola che, in quei mesi, divide famiglie, scuole, piazze e giornali: irredentismo.

Oggi suona lontana, relegata ai manuali scolastici. Ma allora era viva, accesa, contesa. Una parola che prometteva libertà, dignità, appartenenza a chi si sentiva italiano sotto l’Impero austro-ungarico. Ma che per altri significava conflitto, paura, perdita.

Gorizia è una città elegante, ordinata, percorsa dal gusto mitteleuropeo e da tensioni sottili. Ufficialmente appartiene all’Impero, ma le lingue che si intrecciano tra le sue strade raccontano una verità più sfaccettata: italiano, sloveno, tedesco, friulano convivono — non sempre pacificamente. La borghesia urbana parla italiano. Legge i classici del Risorgimento, si riconosce nei valori nazionali, sogna un’Italia unita “fino all’Isonzo”. Ma vive sotto un’amministrazione che parla tedesco e favorisce, per ragioni politiche, l’ascesa degli sloveni. Molti goriziani italofoni si sentono espropriati del proprio ruolo pubblico. L’irredentismo, per loro, diventa un grido d’identità. Non solo nazionale, ma anche culturale e sociale.

Nel 1910, il censimento austriaco attribuisce alla città circa 31.000 abitanti: il 47% italofoni, il 35% sloveni, il 15% tedeschi. Ma nella provincia i rapporti si rovesciano: circa il 58% parla sloveno, il 20% friulano (spesso classificato come italiano), e solo il 19% usa stabilmente l’italiano. Gli irredentisti sono una minoranza numerica, ma una minoranza visibile, colta, organizzata.

Spesso si tende a parlare dell’irredentismo come di un unico movimento, compatto e lineare. Ma a guardare da vicino, quello di Gorizia e quello di Trieste erano molto diversi per natura, toni e protagonisti. A Trieste, l’irredentismo aveva un volto più borghese, radicale e militante. Era spesso legato agli ambienti letterari e culturali, ai giornali di opposizione, alle logge massoniche, e prendeva forma anche in forme di attivismo polemico e talvolta violento, soprattutto contro la componente slava della città. La presenza di una comunità slovena molto numerosa e visibile alimentava un conflitto aperto per il controllo dello spazio urbano e culturale. L’italianità era vissuta anche come barriera identitaria.

A Gorizia, invece, l’irredentismo era più discreto, riflessivo, quasi sommesso. Si sviluppava in salotti, circoli culturali, istituti religiosi e scuole private, dove la lingua italiana era usata con orgoglio ma senza la spavalderia triestina. I goriziani italofoni si percepivano spesso come eredi di una tradizione austro-italiana colta, e l’identità italiana si intrecciava con il cattolicesimo, con la cultura classica, con una visione più interiore della patria. Molti irredentisti goriziani erano professori, sacerdoti, avvocati, giovani studenti che nutrivano ideali romantici, ma erano anche consapevoli del contesto plurale in cui vivevano. L’obiettivo non era solo “essere italiani”, ma anche preservare una dignità culturale in un territorio conteso e fragile.

Trieste urlava. Gorizia, spesso, sussurrava. E questo sussurro, oggi, merita di essere ascoltato con attenzione.

Quando l’Italia entra in guerra nel maggio del 1915, molti irredentisti salutano con entusiasmo. Ma per altri — sloveni, imperiali, contadini — è il principio della devastazione. Gorizia si svuota. Alcuni giovani attraversano il confine per combattere con l’Italia. Altri rimangono fedeli all’Impero. Le famiglie si dividono, le amicizie si spezzano, le identità si frantumano. Quando, nel 1916, l’esercito italiano entra in città, i “redenti” credono di aver raggiunto la meta. Ma la realtà è più amara. L’Italia li guarda con sospetto. Troppo asburgici, troppo misti, troppo complessi per un’identità nazionale che non tollera sfumature.

È a questa complessità che dà voce il volume curato da Renate Lunzer, Irredenti – Redenti. Gli intellettuali giuliani e la Grande Guerra (Del Bianco, 2000). Il libro (che mi era stato consigliato dal professor Sergio Tavano) racconta le storie di figure come Slataper, Stuparich, Michelstaedter, Oblath: intellettuali sospesi tra mondi, cresciuti nella pluralità, costretti dalla guerra a scegliere, a semplificarsi, a mutilarsi. Il titolo — “irredenti e redenti” — viene messo tra virgolette, a sottolineare quanto fossero etichette comode, ma infedeli alla verità delle vite.

Lo confesso: più studio la storia di Gorizia, più mi accorgo che le etichette servono a poco. “Irredento”, “redento”, “austriaco”, “italiano”, “sloveno”... parole che sembrano solide, ma che in realtà raccontano vite fragili, attraversate dalla Storia, spesso senza possibilità di scegliere davvero.

Quel che mi resta, ascoltando le voci di allora, è un senso profondo di umanità. Di vicinanza con chi, cento anni fa, si interrogava su cosa fosse giusto, su quale patria riconoscersi, su quale lingua parlare ai figli.

Gorizia non è mai stata una città semplice. Ma forse è proprio questa complessità a renderla unica. Una città che ha sofferto, sì, ma che oggi può scegliere — finalmente — di non dimenticare, e di raccontare la propria storia senza bandiere, ma con consapevolezza. Perché solo conoscendo ciò che siamo stati, possiamo immaginare con onestà ciò che vogliamo diventare.

Italiani di ritorno: L’altra anima (spesso imposta) di Gorizia

Gorizia non è mai stata una città semplice. Non lo era prima, quando faceva parte dell’Impero austro-ungarico, e lo è ancora meno oggi. Ma se vogliamo capire qualcosa della sua identità, dobbiamo iniziare da un punto fondamentale: qui nessuno è “di qui” da sempre.

Dopo la Prima guerra mondiale, quando Gorizia fu annessa al Regno d’Italia, la città iniziò a cambiare volto. Arrivarono i primi “italiani di ritorno” – o forse sarebbe meglio dire: italiani in missione. Non erano esuli, non cercavano rifugio. Venivano per occupare, riorganizzare, “bonificare” culturalmente. Erano funzionari, militari, insegnanti, impiegati statali. Arrivavano da Ferrara, Bologna, dalla Toscana, dalla Lombardia. Venivano a portare l’italianità là dove – secondo la narrazione ufficiale – era sempre esistita ma era stata soffocata.

In realtà, Gorizia era una città plurilingue, mitteleuropea, cosmopolita. L’italianizzazione non fu un incontro: fu uno sradicamento. Iniziò con le cattedre assegnate agli insegnanti “puri italiani”, continuò con il cambio dei toponimi, la repressione del friulano e dello sloveno, e culminò nel fascismo con la chiusura delle scuole di lingua diversa, la sorveglianza politica, l’esilio culturale di intere famiglie. E poi, dopo la Seconda guerra mondiale, una seconda ondata. Quella degli esuli. Quella degli italiani feriti, che avevano perso tutto e cercavano di ricominciare. Anche loro, a modo loro, italiani “di ritorno”. Ma da un’altra direzione, con altre motivazioni. E così, nel tempo, l’identità italiana a Gorizia si è stratificata: c’è quella “storica”, borghese, liberale; quella “nazionale”, portata dagli apparati statali dopo il '18; quella “traumatizzata”, portata da chi è fuggito da est dopo il '45. Tre anime, tutte italiane, ma molto diverse tra loro.

Parlare oggi di “italiani di ritorno” significa raccontare un’identità imposta, cercata, sofferta. Una presenza che ha lasciato tracce nei cognomi, nei modelli educativi, nel paesaggio urbano. Ma anche nelle fratture non ancora ricomposte. Gorizia non è mai stata monolitica. E se oggi è una città chiusa, sospesa, forse è anche perché non ha mai davvero digerito queste stratificazioni. Perché nessuno le ha mai raccontate con onestà. Forse è arrivato il momento di farlo.

Una città, molte lingue. La memoria che manca

Oggi, a Gorizia, si parla quasi esclusivamente italiano. Ma basta camminare con lo sguardo rivolto al passato per accorgersi che questa città non è mai stata monolingue, né monocorde. È sempre stata un luogo di passaggio, di incroci, di mescolanze. Un territorio di intrecci più che di separazioni.

Gorizia è stata la città dei commercianti e dei soldati, degli artigiani e dei funzionari, dei nobili e dei contadini. Qui, nel giro di pochi isolati, si potevano ascoltare il tedesco degli ufficiali imperiali, lo sloveno dei quartieri popolari, il friulano delle campagne, l’italiano delle élite borghesi, l’ebraico delle preghiere nel Ghetto. Una babele mite, stratificata, che per secoli ha rappresentato la normalità.

Poi sono arrivati i confini, e con loro le fratture, le rimozioni, le semplificazioni. Le scuole slovene furono chiuse, i nomi cambiati, le parole diverse silenziate. Gorizia si è lentamente trasformata in una città che dimentica.

A chi arriva oggi per la prima volta, Gorizia può apparire ordinata, sobria, quasi austera. Ma dietro i suoi palazzi neoclassici, dietro i portici silenziosi e le insegne uniformate, manca qualcosa. Manca la memoria visibile della sua pluralità.

Le strade non raccontano più tutte le lingue che le hanno percorse. I toponimi originari sono stati cancellati. I segni delle convivenze, delle contaminazioni, dei conflitti e delle paci quotidiane sono sbiaditi, nascosti dietro una narrazione lineare e rassicurante. Eppure Gorizia, chi la conosce davvero lo sa, non è mai stata lineare. È una città porosa, irregolare, complessa. Ed è proprio lì, in quella complessità, che risiede la sua vera bellezza.

Ora, con il titolo di Capitale Europea della Cultura 2025, condiviso con Nova Gorica, si apre una possibilità concreta: quella di ricucire il racconto interrotto. Di restituire alla città il diritto di mostrarsi per ciò che è sempre stata: una soglia, un ponte, un crocevia.

Perché non cominciare da un gesto semplice ma visibile? Perché non tornare a scrivere la città in tutte le sue lingue? Una targa bilingue, un pannello narrativo, un’indicazione stradale che riporti anche il toponimo storico: sono piccoli atti, ma hanno un enorme valore simbolico. Non si tratta di folklore, né di nostalgia. Si tratta di giustizia storica, di educazione civica, di riconoscimento.

La memoria non vive solo nei libri o nei monumenti: vive nei muri, nei nomi delle vie, nelle parole che scegliamo di rendere pubbliche. È nei dettagli, nei segni, nei suoni che lasciamo risuonare nello spazio urbano.

Per troppo tempo Gorizia ha guardato solo a una parte della sua storia, rimuovendo tutto il resto. Eppure è proprio quel “resto” a renderla unica. Non basta dire che siamo eredi di una vicenda complessa: bisogna mostrarlo. Con onestà, con coraggio, con apertura. Solo così Gorizia potrà smettere di essere una città divisa dal suo passato e iniziare a raccontarsi per quello che è: molteplice, viva, profondamente vera.

Se vogliamo che il confine smetta di essere una linea che separa e torni a essere uno spazio che connette, dobbiamo iniziare proprio da qui: dalle lingue che ci abitano.

Perché Gorizia è chiusa. Storia di una città che ha imparato a difendersi

Chi arriva a Gorizia per la prima volta – e guarda oltre la patina di quiete ordinata, i palazzi severi e la bellezza discreta – spesso percepisce qualcosa di strano. Un silenzio che non è solo urbanistico, ma quasi esistenziale. Un senso di chiusura, non solo fisica, ma mentale. Come se la città si fosse ritirata in se stessa, come una casa che ha tirato le tende e vive nel ricordo.

E chi qui ci vive da sempre, o ci è tornato dopo anni, lo sa bene: Gorizia fatica ad aprirsi. Alle novità, ai cambiamenti, alle persone. Perché? Forse perché è stata ferita troppe volte.

Ha vissuto, nel giro di pochi decenni, più traumi di quanti una città possa normalmente sostenere. Nel 1915, la guerra dell’Isonzo la travolge come un fiume in piena. La sesta battaglia la consegna all’Italia, ma la città è distrutta, svuotata, devastata. Poi arriva l’italianizzazione forzata del Ventennio fascista, che cerca di cancellare la sua anima slava e mitteleuropea, imponendo lingua e identità dall’alto.

Nel 1943, dopo l’armistizio, sono i tedeschi a occuparla. E infine, nell’aprile del 1945, i partigiani jugoslavi entrano in città, ma il loro arrivo non segna una vera liberazione: apre invece una fase di ambiguità, paura, esodo. La "linea Morgan", il confine provvisorio tra la Zona A (occidentale, italiana) e la Zona B (orientale, jugoslava), taglia in due il suo territorio. Poi arriva il Trattato di Parigi del 1947, che sancisce la perdita di gran parte del contado, affidato alla Jugoslavia. Sul lato orientale nasce Nova Gorica. A Gorizia rimane una metà amputata.

Un muro – reale, concreto – separa la città da se stessa. Le strade che un tempo portavano in periferia finiscono in un reticolato di filo spinato. Le famiglie si parlano da un lato all’altro della rete. La Piazza della Transalpina, un tempo snodo vivo, diventa simbolo dell’assurdo: un marciapiede diviso in due, un confine nel mezzo.

Così Gorizia impara a chiudersi. Non per snobismo, ma per sopravvivenza. Ogni trauma rafforza la sua corazza. Ogni perdita la spinge a difendersi di più. Il boom economico passa da altre parti. Le caserme, per un po’, portano movimento. Poi anche quelle vengono dismesse. I negozi chiudono. I giovani partono. E la città, sempre più ripiegata su se stessa, si aggrappa alla memoria.

La chiusura di Gorizia non è rifiuto. È un modo per non crollare. È l’effetto di una storia spezzata, fatta di cesure. È la stanchezza di chi ha cambiato confine più volte di quanto abbia cambiato sindaco. È l’identità complessa, friulana, slovena, italiana "di ritorno", e mitteleuropea in sottofondo, che fatica a trovare un racconto condiviso.

Eppure oggi qualcosa si muove. La città si risveglia piano, come dopo un lungo letargo. GO!2025 può essere una grande occasione, ma solo se sappiamo viverla non come un evento da esibire, bensì come un percorso da costruire. Serve il coraggio di riconoscersi per quello che si è, con tutte le fragilità e la bellezza che ci portiamo addosso. Serve smettere di guardare con sospetto chi arriva, e iniziare a guardarci allo specchio con onestà.

Perché la verità è che Gorizia non è chiusa. È solo in attesa. In attesa di chi sappia bussare con rispetto. Di una voce che sappia raccontarla senza tradirla. E di uno sguardo capace di vedere non solo ciò che manca, ma tutto quello che ancora può rinascere.

La foto è di: www.esercito.difesa.it, CC BY 2.5, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=50801808

Paolo Mieli a Gorizia: parole che pesano (e fanno bene)

Ieri, 10 giugno 2025, Paolo Mieli è intervenuto a Gorizia, ospite della Diocesi, nel ciclo di incontri “Europa, culture in dialogo – Superare i confini per essere Capitale di una Cultura europea”. L’appuntamento si è tenuto al Kulturni Center Lojze Bratuž, in viale XX Settembre. Il titolo – “Gorizia e Nova Gorica: capitali della cultura europea?” – non è una semplice domanda retorica. È una provocazione gentile. E insieme una cartina di tornasole: dove siamo? E dove vogliamo andare?

Mieli alcune settimane fa aveva già rilasciato dichiarazioni nette: “Da GO!2025 mi aspetto iniziative clamorose. Finora non ne ho viste.” Una frase che, da queste parti, ha fatto rumore. Ma che andrebbe presa come un invito, non come una sentenza. Non è un "processo alle intenzioni", ma un appello alla concretezza. Che è poi lo stesso spirito che mi aveva animato nel mio post di marzo: GO!2025: solo fumo o anche arrosto?

Nonostante i grandi investimenti per sistemare edifici e strade e alcuni eventi d'eccezione di questo GO2025 Gorizia appare ancora una capitale in cerca di sé stessa. La domanda vera è cosa resterà dopo che si saranno spenti i riflettori di questo anno speciale. Lo ha ben chiaro l'arcidiocesi che ha lanciato l'idea di una nuova città europea aperta e da rivitalizzare in una nuova fase rispetto l'inerzia del passato. Gorizia non può limitarsi a “ospitare” la cultura, deve incarnarla, deve usarla per interrogarsi sul suo ruolo nel presente. Non bastano le etichette, i titoli, i fondi europei, se non si costruisce anche un’identità condivisa.

C’è un’enorme differenza tra essere “Capitale europea della Cultura” (con l’iniziale maiuscola, il logo ufficiale, i programmi istituzionali) e diventare davvero Capitale della cultura europea, intesa come spazio di confronto, di apertura, di pensiero critico. Lo ha spiegato bene l’arcivescovo Carlo Redaelli: non serve solo celebrare la cultura, bisogna praticarla, interrogarla, metterla in dialogo con le contraddizioni del presente.

Tra Nova Gorica e Gorizia: un laboratorio possibile. Il ciclo “Europa, culture in dialogo” proseguirà con voci importanti: Paolo Gentiloni, Enrico Letta, Roberto Antonione, il cardinale Tagle. Una scelta interessante, perché chiama la politica e la spiritualità a rispondere insieme: qual è oggi il senso dell’Europa? E cosa può offrire una città di confine come Gorizia, che ha vissuto sulla propria pelle divisioni e riconciliazioni, identità frantumate e ricostruite? Certo, serve molto di più di una serie di incontri per trasformare l’occasione di GO!2025 in un reale punto di svolta. Ma intanto, questa rassegna segna una svolta nel linguaggio. Si parla finalmente di visione, radici, comunità, memoria, dialogo tra culture. Temi che finora erano rimasti ai margini del programma ufficiale.

E noi, da che parte stiamo?

La vera sfida, io credo, non è solo dei relatori, dei promotori, degli amministratori. È anche nostra. È di chi vive qui, di chi scrive, di chi insegna, di chi lavora, di chi ogni giorno attraversa questa città spesso invisibile eppure stratificata, fragile e sorprendente. Cosa possiamo fare? Forse, per cominciare, ascoltare di più. Partecipare. Diffondere. Pretendere chiarezza. Non accontentarci dei titoli e delle inaugurazioni. E soprattutto, rimettere al centro il senso: che città vogliamo essere nel 2025? E nel 2030?

A margine, una nota personale. Mi piacerebbe che questi incontri venissero raccontati anche fuori dalle sale dove si svolgono. Che le voci di chi partecipa, di chi ascolta, di chi dissentisce con rispetto, trovassero eco. Una città si costruisce così: non solo con gli eventi, ma con la memoria che ne resta. E con i dialoghi che ne nascono. Oggi qualcosa si è mosso. Finalmente. Ora tocca a noi non lasciar cadere questo filo.

La foto è di Beny Kosic

Il museo che racconta la storia della caffettiera

La mia passione per il caffè non è certo un segreto. Gli amici sanno bene che non resisto mai davanti a una tazzina fumante, anche se a volte significa trascorrere qualche notte insonne per via delle troppe pause caffè. Ma ogni piccolo sacrificio vale quel piacere aromatico. Ho provato varie soluzioni per godermi il miglior caffè possibile anche a casa. Prima con la comodità della Nespresso, poi con la macchina Rivelia della De Longhi, scoprendo che il gusto del caffè appena macinato è insuperabile. Nel frattempo, ho iniziato anche una piccola collezione di caffettiere Bialetti per l’induzione, acquistate con entusiasmo ma forse un po' troppo impulsivamente. Se solo avessi conosciuto prima Lucio, probabilmente mi avrebbe sconsigliato questi acquisti, spiegandomi che ormai di italiano nella Bialetti è rimasto ben poco, dato che la produzione si è spostata completamente in Oriente. E mi avrebbe raccontato anche qualche curiosità non proprio edificante sul suo fondatore. Proprio con Lucio, appassionato e competente collezionista, recentemente ho vissuto una giornata davvero speciale. Accompagnata da due coppie di amici, altrettanto affascinate dal mondo del caffè, abbiamo visitato il suo straordinario Museo Privato delle Caffettiere a Ruda. Questo piccolo paese friulano ospita una collezione unica, ricca di rarità e oggetti interessanti.
Lucio Del Piccolo, che conoscevo già come appassionato frequentatore dei mercatini regionali, mi ha sorpreso: non è soltanto un collezionista, (ne ha esposte quasi mille) ma un vero esperto riconosciuto a livello internazionale, autore di testi specialistici, docente, consulente e giudice in importanti concorsi del settore. La visita al museo è stata entusiasmante. Lucio ci ha accompagnati attraverso secoli di storia del design e delle tradizioni legate al caffè, mostrando con orgoglio centinaia di pezzi unici, dalle più semplici moka fino alle più elaborate caffettiere ottocentesche. Non ci ha parlato delle sue tecniche innovative di preparazione, forse per non rischiare di stancarci. Un peccato? Non direi: è un motivo in più per tornare presto da lui. La sala del museo è un piccolo gioiello, arredata con una cura e un gusto straordinari. Merito forse della dolce moglie Giulia, che ha saputo rendere l'ambiente elegante e accogliente, impreziosito anche da un tavolino con base in ghisa e ripiano in marmo e da tre sedie raffinatissime, capaci di rubare la scena persino alle celebri Thonet. Lasciando il museo, è stato chiaro che ogni tazzina di caffè porta con sé una storia, fatta di avventure, incontri e creatività. E condividere questa esperienza con gli amici ha reso ogni futuro caffè insieme ancora più speciale.