Una terra di golosa bellezza da vivere in quattro stagioni

Costretta, per lungo tempo, ad un quasi forzato immobilismo, libri e serie tv mi hanno consentito di rendere meno insopportabile la situazione. Ho sempre amato gli autori locali. Da Carlo Sgorlon a Fulvio Tomizza, tanto per restare nell’alveo di quelli che ormai considero dei classici, per evitare qualche imperdonabile omissione, la mia più recente scoperta è stata Angelo Floramo eclettico scrittore, attore, studioso e regista udinese. La Veglia di Ljuba racconta, in maniera magistrale, la vita intensa di un uomo, esule più per vocazione che per destino. Ma soprattutto la storia del protagonista diventa lo spunto per narrare la storia del Novecento lungo il confine tra Italia e Jugoslavia. Dai villaggi dell’Istria profonda alle pagine nere del fascismo, dall’occupazione titina di Trieste al terremoto in Friuli del 1976 e alla successiva ricostruzione, fino ad arrivare ai giorni nostri. In pratica, la biografia di un uomo si sovrappone alla biografia di una terra complessa, plurale, qual è la nostra terra di confine.

Nei giorni scorsi, sul quotidiano locale, Floramo ha disegnato un ritratto del nostro territorio talmente emozionante che non posso non condividere. Lo stesso titolo: sintetizza ciò che ho sempre affermato. Ovvero che non c’è regione più bella del Friuli Venezia Giulia.

Primavera. È sicuramente la stagione delle colline, buona per la classica uscita fuori porta. Qui resta una tradizione, e ha radici antiche. Era il tempo della “merenda”. Una voce latina antica, bellissima e piena, tanto da coccolarsene in bocca il nome prima ancora del suo contenuto. Le mirinde, in lingua friulana: ciò che ci si deve meritare. Qualcosa di profondamente buono però. I falciatori la custodivano nella parte più protetta del carro, preservando dalla calura il suo prezioso contenuto con foglie fresche e frasche. Era un cestino di vimini intrecciato, un zej, dentro il quale la tradizione vuole si riponessero alimenti facili da consumare e da digerire, e al contempo capaci di dare nutrimento e soddisfazione a chi, sul bordo erboso dei campi, ne gustava la meritata ricompensa. Uova sode per lo più. Qualche crosta di formaggio. Forse una frittata impastata con erbe e cipolle. Personalmente arricchirei la sporta con alcuni assaggi di quel formaggio che nella vicina Fagagna è ormai un imprescindibile presidio del gusto. Il suo sapore è intenso e gli viene conferito dalle erbe e dai fiori di questi stessi prati. La mia scelta ricadrebbe senz’altro sul “vecchio”, di un anno almeno di stagionatura. Guai dimenticarsi del bottiglione con un vino rosso leggero, appena appena frizzantino. Un bacò fresco come un bacio che sa di terra e di fatica, un misto di lampone, mora e amarena. Il giorno declinerà lasciando una memoria di sé difficile da dimenticare.

Estate. Quando il caldo si fa sentire è opportuno cercare refrigerio in uno dei tanti isolati recessi di “limpide fontane e fresche ombre” di cui il Friuli è ricchissimo, lontano dalle congestioni delle spiagge ma anche dai sentieri montani e dai rifugi, ugualmente presi d’assalto da parte di un’umanità chiacchierona e invadente. Si raggiunga la valle del Torre. Bisogna partire da Tarcento. E ne vale la pena. Oltrepassando il ponte, oltre via dei Molini, ci si congiunge alla strada regionale 464 prendendo, poco prima dell’ingresso nel paese, la via delle Cascate, che porta al borgo di Zomeais. Da qui si scende fino a costeggiare il greto del torrente. Mentre si procede la luce cambia e così i riflessi dell’acqua, che oscillano dalle tonalità smeraldine a quelle turchesi. Si direbbe che questo luogo sia abitato dalle fate d’acqua care alla tradizione mitologica delle genti friulane: le Aganes. E’ tradizione da queste parti la grigliata tra i sassi del fiume. Birra e anguria troveranno la giusta refrigerante temperatura tra i flutti. Gli amanti delle osterie invece ne troveranno moltissime disseminate nei paraggi. A cominciare da Pulzut, facilmente raggiungibile dal sito delle cascate: basta tornare indietro e raggiungere Coia di Levante. La strada è molto bella. Scivola solitaria tra i prati e la boscaglia. Poco prima di raggiungere il paese, tra vigne antiche, orti e prati, lasciatevi sorprendere da questa vecchia locanda, una di quelle sane e robuste di una volta. Poche pretese, cibo squisito e stagionale, un vino che stilla dai legni antichi e ha la sapienza della terra. Qui più slava che friulana.

Autunno. E’ senz’altro una bella età dell’anno. In questa stagione i profumi della terra si fanno forti. Hanno il sapore del legno e della cantina. Appena dietro l’angolo di casa mia, a Borc di Ruvigne, si apre una regione particolarmente selvaggia e purtroppo poco conosciuta dagli stessi friulani. Parlo di Castelnovo del Friuli. Piccoli orti, prati da falciare e un bosco diffuso che per millenni aveva concesso ai loro antenati tutto ciò di cui avevano bisogno: legno, miele, bacche, funghi, cacciagione. E balze erbose sulle quali allevare capre e pecore, capaci di regalare un latte denso, profumato e tendente al giallognolo, dal quale ancora oggi si ricava un formaggio di sapore intenso, che qui chiamano “formadi Asìn”, conservato in antiche salamoie che ne affino profumo e sapore. Qui i meli e i susini producono frutti di straordinario pregio, già tutelati dai presidi alimentari. Se ne faranno composte e marmellate. Le vigne, che sono tutte orientate a cercare i raggi del sole, sono di legno antico. Regalano vini scomparsi e dimenticati. Tra tutti il Piculit Neri. I tini sono stati riempiti nelle cantine e le essenze che rilasciano sono inebrianti. Passato il ponticello sul Cosa, meraviglioso corso d’acqua, dal fondo verdissimo, si diriga il passo verso Molevana: è come smarrire data, epoca, tempo. Perché si cade dentro alle pieghe di un paesaggio che ricorda le illustrazioni dei libri di fiabe. Se non fai attenzione l’osteria “Al Puntiç” te la perdi confondendola con le altre case. Qui, come un tempo, quello che bolle in pentola te lo dice a voce la padrona. Segno che dalla cucina escono i prodotti di stagione. Vi si trova, su ordinazione, perfino il latte d’asina! Il nome deriva da una delle meraviglie della zona. A pochi passi infatti un antico ponte di pietra alza il suo arco sulla vertiginosa forra che racchiude le pozze smeraldine.

Inverno. Chi ha mai detto che il mare a febbraio non può essere speciale? Restituisce i luoghi ai loro abitanti. Se dovessi consigliare una passeggiata invernale, inviterei a cercare proprio in Monfalcone quello sguardo straniante che fa la differenza. I platani saranno ormai privi di foglie. Immaginate la bora che arriva dal Carso, quella immensa distesa di terre desolate e di rocce che appena fuori dalla città precipita verso i Balcani. Avrete voglia di cercare una via più piccola e accogliente, un caffè in cui trovare rifugio. Non è infrequente trovare ancora, presso qualche angolo di via, qualcuno che arrostisce le castagne. Sarà certamente il profumo di buono ad addolcirvi il crepuscolo. A dicembre qui non è infrequente che l’aria gelida porti con se qualche fiocco di neve, perfino se il cielo è terso: viene da un altrove inimmaginabile. Bisogna resistere. Solo così si conquista la rocca spartana, con la sua torre di pietra che domina la città. Pare sia stata fatta erigere dal grande re degli Ostrogoti Teodorico intorno al 490 dell’era Volgare. Ma se volete davvero condannarvi all’inferno dei golosi non potete farvi scappare i dolci preparati in casa. Se invece volete andare contro ogni schema e conoscere anche l’altro volto di Monfalcone, allora non fermatevi qui. Proseguite oltre la piazza, verso quel labirinto di strade che vi porterà nei quartieri multietnici della città. In prevalenza impiegati nei duri lavoro portuali, gli immigrati hanno arricchito il tessuto urbano con i colori del mondo che si esprimono anche attraverso i negozi, i costumi, gli accenti policromi e variegati. L’impressione è che tanta bellezza, che inevitabilmente nasce dall’intersezione e dall’incontro fra culture diverse, renda qui meno duro il rigore dell’inverno. Ecco un’altra buona ragione per visitare questa piccola regina proletaria dell’Adriatico nella stagione più cruda dell’anno. Se avete un cuore, ve lo saprà scaldare come nessun altro luogo ha mai fatto prima. Buon viaggio, dunque. E buon appetito.

La foto è di Beny Kosic