Leonor Fini: donna d’arte, desiderio e libertà con Trieste nel cuore

Chi appartiene alla mia generazione è certamente cresciuto a pane e cineforum. Difficile quindi non considerare il cinema come fondamentale momento di crescita e, qualora possibile, coinvolgere gli amici in un dialogo e confronto culturale. Personalmente amo le rassegne tematiche, e di anno in anno propongo titoli che molto spesso escono dai tradizionali circuiti commerciali. Salvo celebrare o commemorare particolari momenti com’è stato, ad esempio, il 23 agosto per il coinvolgente film di Giuliano Montaldo Sacco e Vanzetti del 1971 e che quest’anno compie, quindi, giusto giusto 50 anni, premiato tra l’altro quell’anno al Festival di Cannes. Il 23 agosto del 1927, infatti, gli italiani Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti furono condannati a morte nonostante le prove che li scagionavano, uccisi sulla sedia elettrica, nel penitenziario del Massachussetts (Usa). Memorabili, di quel film, l’interpretazione di Gian Maria Volontè (soprattutto nell’indimenticabile monologo) e la colonna sonora di Ennio Morricone.

Una delle mie rassegne cinematografiche personali, che ho particolarmente amato, ha tracciato il ritratto artistico di numerose pittrici rimaste pressoché sconosciute, se non usurpate nella fama dal marito. Com’è stato, ad esempio, per Margaret Keane, all'anagrafe Peggy Doris Hawkins. Nata il 15 settembre nel 1927 a Nashville, Tennessee, dopo anni non facili a metà degli anni 1950 conosce e sposa Walter Keane. Lavora come artista e inizia a vendere le proprie opere utilizzando il nome del marito. I suoi lavori sono cupi e intensi. Nella seconda metà degli anni sessanta divenne famosa in tutto il mondo per un caso di furto artistico di cui è stata protagonista insieme al marito dell'epoca, Walter Keane. Egli, infatti, si era appropriato delle opere degli orfanelli con i grandi occhi, vendendole a proprio nome. La vera artista, pur essendo inizialmente d'accordo per la convinzione che non sarebbe altrimenti riuscita a vendere le sue opere, citò comunque in giudizio l'ex-marito e vinse la causa dipingendo un quadro in tribunale. Margaret, oggi, con sessanta anni di carriera alle spalle continua a dipingere nella sua casa in California. I soggetti favoriti di Keane sono donne, bambini o animali dagli occhi enormi praticamente sproporzionati. La sua storia è stata raccontata dettagliatamente nel 2014 con il film di Tim Burton – un appassionato collezionista dei lavori di Keane – “Big Eyes”, con Amy Adams nei panni di Margaret.

A rimarcare, smontandola, l’idea stereotipata che un artista dovesse essere per forza un uomo fu invece Leonor Fini, (Buenos Aires, 30 agosto 1907 – Parigi, 18 gennaio 1996) pittrice, scenografa, costumista, scrittrice, illustratrice e disegnatrice italiana, esponente del Surrealismo internazionale. A lei il cinema, fino ad ora tuttavia, ha dedicato soltanto alcuni documentari, quale ad esempio l’inedito, prodotto in Belgio, di Chris Vermorcken e “Mais où est Leonor?” del 2009, diretto da Giampaolo Penco con la collaborazione di Corrado Premuda che ripercorre tra Parigi e Trieste alcune tappe importanti della vita e della carriera della pittrice attraverso immagini, documenti e filmati di repertorio e grazie ai racconti di alcuni amici dell’artista. Di Corrado Premuda, peraltro, è anche il gradevolissimo libro dall’originale titolo Un pittore di nome Leonor che regala il ritratto di una bambina sognatrice e curiosa, e dell’affascinante città dov’è cresciuta, crocevia di lingue, culture e religioni differenti, Trieste appunto.

Nata a Buenos Aires nel 1907 da padre italo-argentino e madre triestina, la creatività di questa grande surrealista in Italia non fu, forse, mai veramente compresa. «Sua madre, Malvina Braun, scopre presto l’indole violenta del marito. Con un tocco di asburgica indipendenza salpa così alla volta di Trieste portando con sé la piccola Leonor: che cresce nella casa borghese di famiglia insieme alla mamma e allo zio Ernesto, un colto avvocato» come ha raccontato Marianna Accerboni, curatrice della mostra Leonor Fini. Memorie triestine che è rimasta aperta fino al 22 agosto di quest’anno al Polo Museale del Porto Vecchio di Trieste. L’arte del travestimento, che ha caratterizzato la sua vita rendendola indimenticabile per tutti coloro che l’hanno conosciuta, Leonor l’ha appresa fin da piccola. La mamma, infatti, per qualche anno la vestirà da maschietto, temendo un rapimento da parte del padre che cerca di riaverla ad ogni costo. Leonor si dedicò a diversi campi dell’arte: pittura, incisione, scenografia e costumi per cinema e teatro, design, illustrazione, scrittura. Scelse di vivere a Parigi dove riuscì a costruire una lunga, fortunata e, soprattutto, riconosciuta carriera. Qui, entrò in contatto con i massimi esponenti della pittura e della letteratura surrealista (senza tuttavia unirsi ufficialmente al movimento), da André Breton a Salvador Dalí, da Paul Éluard a Max Ernst. Donna d’arte, desiderio e libertà, Leonor Fini ha vissuto un’intensa vita di artista dedicata pressochè esclusivamente ai segreti, ai piaceri, ai dolori e alle manifestazioni della spinta erotica in tutto ciò che è vivente, nella psiche umana fino a quella animale, vegetale e puramente biologica; illustrandola in quadri luminosi e misteriosi che ha continuato a creare fino alla morte avvenuta nel 1996 a Parigi. Non a caso, quindi, in modo fragorosamente appropriato le è stata dedicata alcuni anni fa, a New York, una vasta mostra personale intitolata “Leonor Fini – Theater of Desire: 1930-1990”, nel singolare museo della sessualità. “Il suo legame con il teatro, i suoi romanzi surrealisti, la sua passione per il disegno e la fotografia, i suoi tanti amori, il suo essere libera e dissacratoria ma anche il suo originale concetto di fedeltà e il suo amore per la vita, da sempre così legata alla madre e così spaventata dalla solitudine, tracciano alfine lo specchio di una personalità d'artista unica che valica i confini della pittura per collocarsi di diritto tra i grandi del Novecento.” Wikipedia dixit!

Aironi nel Preval: si avvicina l'autunno

Lunedì 7 settembre del 2015 (mi sembra invece soltanto ieri) scrivevo sul Blog Piazza Travnik questo post. Lo ripropongo con una certa emozione, perchè era da un paio d'anni che non vedevo più gli aironi nella mia amata campagna.

Aironi bianchi, aironi cinerini, e spero arrivino presto anche gli aironi rossi ed i fenicotteri in Val Cavanata. Aspetto, e devo dire con una certa ansia, di vedere online le bellissime immagini che la fotografa naturalista @Margitta Schuff Thomann scatta e che, pubblicandole, immortala la meraviglia del nostro territorio. Oasi del Preval, Isola della Cona, Val Cavanata: nell'Isontino le occasioni per scatti naturalistici non si contano, come ben ci dimostrano anche quotidianamente @BenyKosic o @LucioUlian

"Non conoscevo gli aironi prima di averli visti, lo scorso inverno, fermi, anzi immobili, in mezzo a campi e vigne che fiancheggiano le strade comunali e provinciali che ho percorso: quella che da Savogna porta alla statale del Vallone; quella che da San Lorenzo porta a Mariano ..... sopratutto. Non conoscendolo, perchè mai prima di allora aveva stazionato nelle nostre zone, avevo pensato fosse un animale che vive nei paesi caldi, anche perchè, difatto, l'unico riferimento certo o ricordo che dir si voglia che avevo, era legato a Giorgio Bassani, ferrarese.

Giorgio Bassani, assieme a Cesare Pavese, è uno degli scrittori che più ho amato durante la mia adolescenza e non è un caso, quindi, il fatto che avrei desiderato chiamare mia figlia Micòl, indimenticata protagonista del libro "Il giardino dei Finzi Contini" portato sullo schermo da Vittorio De Sica nel 1970 ed il cui ruolo era stato interpretato dalla eterea Dominique Sanda, mentre quello del fratello Alberto (scelta assolutamente condivisibile) era stato affidato ad Helmut Berger. L'airone è stato, forse, uno dei libri meno noti di Bassani ed anzi forse il più triste perchè affronta, con 40 anni di anticipo, il problema della depressione, malattia riconosciuta ufficialmente, soltanto di recente. Il libro racconta che al protagonista, davanti alla bottega di un imbalsamatore, torna alla mente un airone ucciso durante la mattutina battuta di caccia e gli pare di sentirsi come il volatile, «senza la minima possibilità di sortita». Immaginandosi morto, il protagonista si sente travolgere da «un'onda improvvisa di felicità» e decide che la sera stessa si toglierà la vita.

La depressione, sentirsi in trappola, senza via di fuga: è questo lo schema alla sua radice. Non importa quale sia la situazione specifica: disoccupazione in età matura, matrimonio in crisi, un mare di debiti o altro. Quel che conta è la sensazione che sta alla base. Ci si sente “chiusi dentro”, come in un ascensore bloccato: una claustrofobia esistenziale, simile a quella per i luoghi chiusi e affollati in cui non si vede l’uscita. Bassani che deve averla provata, per averla anticipatamente e dettagliatamente descritta, ha utilizzato le parole per descrivere ciò che Vincent van Gogh ha fatto utilizzato pennello e colori nel suo bellissimo "Sulla soglia dell'eternità".

L'immagine degli aironi l'ho scattata stamattina nel Preval.