Gorizia, 1915: chi erano davvero gli irredentisti?

Gorizia, 1915. C'è una parola che, in quei mesi, divide famiglie, scuole, piazze e giornali: irredentismo.

Oggi suona lontana, relegata ai manuali scolastici. Ma allora era viva, accesa, contesa. Una parola che prometteva libertà, dignità, appartenenza a chi si sentiva italiano sotto l’Impero austro-ungarico. Ma che per altri significava conflitto, paura, perdita.

Gorizia è una città elegante, ordinata, percorsa dal gusto mitteleuropeo e da tensioni sottili. Ufficialmente appartiene all’Impero, ma le lingue che si intrecciano tra le sue strade raccontano una verità più sfaccettata: italiano, sloveno, tedesco, friulano convivono — non sempre pacificamente. La borghesia urbana parla italiano. Legge i classici del Risorgimento, si riconosce nei valori nazionali, sogna un’Italia unita “fino all’Isonzo”. Ma vive sotto un’amministrazione che parla tedesco e favorisce, per ragioni politiche, l’ascesa degli sloveni. Molti goriziani italofoni si sentono espropriati del proprio ruolo pubblico. L’irredentismo, per loro, diventa un grido d’identità. Non solo nazionale, ma anche culturale e sociale.

Nel 1910, il censimento austriaco attribuisce alla città circa 31.000 abitanti: il 47% italofoni, il 35% sloveni, il 15% tedeschi. Ma nella provincia i rapporti si rovesciano: circa il 58% parla sloveno, il 20% friulano (spesso classificato come italiano), e solo il 19% usa stabilmente l’italiano. Gli irredentisti sono una minoranza numerica, ma una minoranza visibile, colta, organizzata.

Spesso si tende a parlare dell’irredentismo come di un unico movimento, compatto e lineare. Ma a guardare da vicino, quello di Gorizia e quello di Trieste erano molto diversi per natura, toni e protagonisti. A Trieste, l’irredentismo aveva un volto più borghese, radicale e militante. Era spesso legato agli ambienti letterari e culturali, ai giornali di opposizione, alle logge massoniche, e prendeva forma anche in forme di attivismo polemico e talvolta violento, soprattutto contro la componente slava della città. La presenza di una comunità slovena molto numerosa e visibile alimentava un conflitto aperto per il controllo dello spazio urbano e culturale. L’italianità era vissuta anche come barriera identitaria.

A Gorizia, invece, l’irredentismo era più discreto, riflessivo, quasi sommesso. Si sviluppava in salotti, circoli culturali, istituti religiosi e scuole private, dove la lingua italiana era usata con orgoglio ma senza la spavalderia triestina. I goriziani italofoni si percepivano spesso come eredi di una tradizione austro-italiana colta, e l’identità italiana si intrecciava con il cattolicesimo, con la cultura classica, con una visione più interiore della patria. Molti irredentisti goriziani erano professori, sacerdoti, avvocati, giovani studenti che nutrivano ideali romantici, ma erano anche consapevoli del contesto plurale in cui vivevano. L’obiettivo non era solo “essere italiani”, ma anche preservare una dignità culturale in un territorio conteso e fragile.

Trieste urlava. Gorizia, spesso, sussurrava. E questo sussurro, oggi, merita di essere ascoltato con attenzione.

Quando l’Italia entra in guerra nel maggio del 1915, molti irredentisti salutano con entusiasmo. Ma per altri — sloveni, imperiali, contadini — è il principio della devastazione. Gorizia si svuota. Alcuni giovani attraversano il confine per combattere con l’Italia. Altri rimangono fedeli all’Impero. Le famiglie si dividono, le amicizie si spezzano, le identità si frantumano. Quando, nel 1916, l’esercito italiano entra in città, i “redenti” credono di aver raggiunto la meta. Ma la realtà è più amara. L’Italia li guarda con sospetto. Troppo asburgici, troppo misti, troppo complessi per un’identità nazionale che non tollera sfumature.

È a questa complessità che dà voce il volume curato da Renate Lunzer, Irredenti – Redenti. Gli intellettuali giuliani e la Grande Guerra (Del Bianco, 2000). Il libro (che mi era stato consigliato dal professor Sergio Tavano) racconta le storie di figure come Slataper, Stuparich, Michelstaedter, Oblath: intellettuali sospesi tra mondi, cresciuti nella pluralità, costretti dalla guerra a scegliere, a semplificarsi, a mutilarsi. Il titolo — “irredenti e redenti” — viene messo tra virgolette, a sottolineare quanto fossero etichette comode, ma infedeli alla verità delle vite.

Lo confesso: più studio la storia di Gorizia, più mi accorgo che le etichette servono a poco. “Irredento”, “redento”, “austriaco”, “italiano”, “sloveno”... parole che sembrano solide, ma che in realtà raccontano vite fragili, attraversate dalla Storia, spesso senza possibilità di scegliere davvero.

Quel che mi resta, ascoltando le voci di allora, è un senso profondo di umanità. Di vicinanza con chi, cento anni fa, si interrogava su cosa fosse giusto, su quale patria riconoscersi, su quale lingua parlare ai figli.

Gorizia non è mai stata una città semplice. Ma forse è proprio questa complessità a renderla unica. Una città che ha sofferto, sì, ma che oggi può scegliere — finalmente — di non dimenticare, e di raccontare la propria storia senza bandiere, ma con consapevolezza. Perché solo conoscendo ciò che siamo stati, possiamo immaginare con onestà ciò che vogliamo diventare.

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