Gorizia, terra d'artisti: Marega da Lucinico il più grande scultore del Canada dell'ovest

Che una delle anime di Gorizia sia artistica non ho avuto mai alcun dubbio. E ben lo dimostrano i numerosi artisti in città che vi hanno insegnato o sono usciti da quella incredibile fucina che è, adesso, il liceo artistico Max Fabiani. La dimostrazione più eclatante di quest'anima è l'associazione Prologo che, in via Ascoli, espone ed organizza mostre d'arte di elevatissimo livello. E merito va riconosciuto anche all'appassionato e cultore di storia locale, architetto Diego Kuzmin che sulle pagine del quotidiano il Piccolo, settimanalmente, svela aspetti che ai più sono sconosciuti. Perchè il suo occhio e le sue conoscenze sopratutto in campo arhitettonico sono veramente inusuali. Ieri, ad esempio, ci ha raccontato la storia di Carlo Marega.

"Quarant'anni fa Lucinico vede notevole espansione in zone Peep, espropriate alle coltivazioni. Il progetto urbanistico di Piccinato prevedeva una zona commerciale sulla strada principale di attraversamento, che negli anni '70 venne intitolata a C. Marega, come si legge sulle tabelle toponomastiche.

Chi era C. Marega lo racconta in rete Wikipedia inglese: "Charles Carlos Marega (September 24, 1871 - March 27, 1939) was a Canadian sculptor in the early 20th century" aggiungendo che "he was born in Lucinico, in the commune of Gorizia, then part of the Austrian-Hungarian Empire". Scriveva nel 1977 Celso Macor sulla rivista Lucinis, che l'anno prima un funzionario del Consolato d'Italia di Vancouver, chiedeva notizie al Comune del lucinichese Carlo Marega, noto come «il più grande scultore del Canada occidentale» e allegando ritagli di giornale. Fino a quel momento nessuno sapeva nulla di lui. Da ragazzo aveva studiato tecniche decorative alla Scuola Arti e Mestieri di Mariano, per specializzarsi poi a Vienna presso lo scultore Oskar Tilgner, che apparteneva alla cerchia di artisti intorno al conte Karl Lanckoronski, mecenate, storico e dal 1891 impegnato ricercatore nei primi studi archeologici di Aquileia, illustrati nel poderoso testo Der Dom von Aquileia, Vienna, 1906. A Zurigo lavora con lo scultore Herman Panitz, sposandone poi nel 1899 la vedova Berta Schellenberg, di un anno più giovane. Nel 1906 la coppia raggiunge il Sud Africa, dove Carlo collabora col noto scultore olandese Anton van Wouw, decidendo poi per la California con tappa a Vancouver nell'ottobre 1909, dove rimasero per le ottime occasioni che offriva una grande città priva di scultori. Le commissioni sono numerose ma la più importante arriva nel 1938, l'anno prima della sua morte a 68 anni e due dopo quella dell'amata consorte, con il Lions Gate Bridge di Vancouver, ponte sospeso di quasi due chilometri, detto Ponte dei Leoni per le quattro figure di leone-sfinge ai due lati degli accessi, modellate in cemento colato con gli stampi lignei da lui preparati. La notevole somiglianza con il ponte Qasr al-Nil a Il Cairo, dove i leoni-sfinge del 1872 sono dello scultore francese Jacquemart, fa pensare a un viaggio via terra verso Pretoria, incontrando magari in Egitto il nostro architetto Lasciac che dal 1882 vi lavorava".

Gigi Spina, l'eroe goriziano che proprio non sopportava la Cortina di ferro

Italiani, popolo di santi, poeti e navigatori, o meglio, (per essere più precisi): popolo di eroi, di santi, di poeti, di artisti, di navigatori, di colonizzatori, di trasmigratori. E’ la prima parte ad essere comunque rimasta la più famosa di un discorso che Benito Mussolini pronunciò il 2 ottobre 1935 contro la condanna all’Italia, da parte delle Nazioni Unite, per l’aggressione all’Abissinia. Questa stessa citazione campeggia sulle quattro facciate del Palazzo della Civiltà Italiana, o della Civiltà del Lavoro. Quello splendido edificio che si trova a Roma nel quartiere dell’EUR.

Eppure, a parte i santi ed i poeti, a me piace molto il termine “Eroi” sia nella accezione antica che in quella moderna. Se nella mitologia dei vari popoli antichi, un EROE è un essere semidivino, al quale si attribuiscono imprese prodigiose e meriti eccezionali (gli eroi erano in genere divinità decadute alla condizione umana oppure uomini trasformati in divinità grazie a meriti particolari.), attualmente, invece, viene chiamato eroe chi, in imprese di guerra o azioni di altro genere, dà prova di grande valore e coraggio affrontando gravi pericoli e compiendo azioni straordinarie. Ecco, Gigi Spina è senz’altro un eroe! Perché sono stata più volte a Berlino. Ed una vola a Berlino Est. E bisogna veramente esserci stati per avere piena consapevolezza di come, là, allora, si viveva dopo la costruzione del muro.

A 60 anni di distanza dalla costruzione del muro di Berlino, Rai Documentari ha proposto, nei giorni scorsi, una serata evento per ripercorre la storia da una prospettiva inedita del Muro, uno dei simboli storici dello scorso millennio. "Tunnel della Libertà" racconta, infatti, la vicenda sorprendente e sconosciuta nella Berlino del primo dopoguerra. Due italiani, (a dire il vero avrei preferito il riferimento specifico alla nostra minuscola cittadina nda) Luigi Spina e Domenico Sesta, hanno ideato e partecipato alla costruzione del primo tunnel per consentire la fuga da Berlino Est a Berlino Ovest. Una rocambolesca avventura dove Spina e Sesta hanno l'idea geniale di vendere ai network televisivi americani i diritti delle immagini del tunnel e dell'evacuazione attraverso di esso, dei rifugiati. Questa operazione, molto audace per quei tempi, è l'asso nella manica con cui si rende possibile e realizzabile l'incredibile sogno della libertà. Questa, sintetica, la presentazione del filmato disponibile online.

Più articolato, e sotto un certo punto di vista emozionante, il racconto di Jeena Cucciniello, pubblicato da Friulioggi.it. Eccolo!

“Si chiama Luigi Spina, “Gigi” il goriziano che, insieme al suo amico Domenico Sesta, detto “Mimmo”, pugliese, organizzò la costruzione del primo tunnel sotto il muro di Berlino. I due, conosciutisi a Gorizia e ritrovati alla Technische Universität di Berlino, infatti, cercavano una via di fuga per liberare il loro compagno di studi Peter Schmidt, rimasto intrappolato insieme alla famiglia nella Berlino Est.

L’incontro a Gorizia. Luigi Spina già all’età di nove anni vive la divisione di una città: Gorizia era divisa da un filo spinato. Sesta abita nella parte della Gorizia occidentale, mentre quella orientale finisce sotto la Jugoslavia. Nel 1961 iniziò a studiare arte e design all’Università di Berlino Ovest. Poco dopo si ritrova in una nuova città divisa, questa volta a Berlino.

Domenico Sesta, pugliese diplomato, fino all’età di 15 anni fu ospitato in seminario, poi si trasferì a Gorizia per prendere il diploma. Nel frattempo si trovò coinvolto anche nelle manifestazioni di solidarietà della città, all’epoca zona di confine italo-jugoslava. Proprio a Gorizia diventò amico di Spina ed insieme a lui si trasferirono a Berlino, dove Sesta voleva studiare architettura.

L’impresa. Impiegarono più di quattro mesi i due amici della Berlino Ovest per scavare il tunnel, rischiando così la vita per salvare amici e parenti. Alla fine Sesta e Spina realizzarono una galleria di 135 metri, scavata nel sottosuolo della città e che, il 14 settembre 1962, proprio un anno, un mese e un giorno dopo la costruzione del Muro, aiutò a fuggire ben 29 persone. I due italiani, studenti d’arte, non sapevano come continuare e chiesero l’aiuto di altri compagni della vicina università tecnica: Hasso Herschel e Uli Pfeiffer. Per finanziare i lavori, Mimmo e Gigi decisero di vendere i diritti delle immagini del tunnel e del trasporto dei rifugiati ad un network americano. In questo modo, tramite il finanziamento della statunitense NBC, i lavori per il “tunnel degli italiani” proseguirono. In cambio la NBC filmò le attività di scavo e il momento in cui uomini, donne e bambini uscivano dalla galleria, trovandosi così in Occidente. Le immagini di quel film si diffusero in tutto il mondo quando la NBC, il 10 dicembre 1962, le trasmise al grande pubblico di oltre 30 paesi.

Il documentario dell’impresa unica e straordinaria è stato l’unico a vincere un Emmy Award come miglior programma dell’anno. Sesta e Spina nel 2000 ricevettero la Medaglia d’oro al valor civile.”

Mi dicono che in città, e precisamente in via Rastello, vive ancora una parente del nostro eroe. E non poteva essere diversamente. Tenuto conto che da questa via sta iniziando il Rinascicomento cittadino.

Popolazione residente, una inversione di rotta è possibile.

Non posso negare che Internet ha i suoi vantaggi. Non soltanto è fonte di conoscenza praticamente illimitata ma consente anche di ritornare in contatto con persone che si erano perse di vista nel tempo o di conoscerne delle nuove che, in circostanze normali, mai sarebbe stato possibile incontrare. E’ il caso di Giovanna e Massimo Rapi che ho conosciuto personalmente nei giorni scorsi, (dopo uno scambio di gradevolissime mail con le quali abbiamo condiviso l’amore per il Goriziano) e che ha deciso, assieme alla sua famiglia, di trasferirsi dal Mugello, dove ora vivono, e di venire a vivere a Gorizia. Che dire? Il mio desiderio che, temevo, fosse soltanto un sogno si è avverato. Chi ha modo di visitarla e, quindi, di conoscerla, non può che sperare di viverci. Lei! Città di frontiera, nell’accezione più pura del termine, verde, mite, con un passato glorioso, aureo, drammatico. Sintesi di popoli di tradizioni e quindi di cultura. Un nuovo inizio è forse possibile? Massimo è ottimista e l’ha scritto anche sulle pagine del Dubbio, quotidiano nazionale, l’indomani di un evento, per noi epocale. L'Europa nelle due Gorizie capitali della cultura. Ecco il testo di quell'articolo, pubblicato il 23 dicembre dello scorso anno, sulla prima pagina del Il Dubbio.

"Il 18 dicembre sul confine orientale d'Italia è accaduto qualcosa di visionario e con implicazioni profondamente politiche per il futuro dell'Europa. Era un confine serrato dalla storia recente, ma che si trova ora protagonista di flussi commerciali e migratori intercontinentali, come gli era sempre accaduto per naturale e plurimillenaria vocazione geografica: uno snodo concreto per osservare flussi delle conoscenza e come evolvono le identità nazionali.

In un passaggio d'epoca come quello che stiamo vivendo è sui confini che spesso si gioca la sopravvivenza di una idea di mondo (o civiltà, se vi piace), ed è intorno ai confini che possono avvenire i fatti più interessanti. Sul confine, su quella linea di variazione dei fenomeni che divide e allo stesso tempo suo malgrado mette in contatto, si vedono in tutta la loro forza le tensioni, le frizioni ma anche le prospettive e i disequilibri dinamici che riconfigurano i processi storici e sociali.

Vale anche per le nostre cellule, la cui sopravvivenza dipende dai recettori proteici presenti su quel confine poroso della vita che è la membrana. Recettori gravati del difficile incarico di correttamente identificare e selezionare cosa accogliere della caotica ma fertile gelatina extracellulare: «Ehi, quel che mi si avvicina è un virus che entrato al mio interno mi distruggerà, oppure è un fattore di crescita, o forse un vaccino che mi allena alla difesa, o soltanto uno stimolo al cambiamento?» Difficile capirlo sempre a priori, nel micro come nel macro universo le apparenze e le esperienze ingannano. E vale al contempo per le società umane, per i loro “recettori sociali” così tanto più grandi, raffinati e complessi dei minuscoli omologhi cellulari, da sembrare talvolta persino dotati del dono (apparente ?) della libertà. Caratteristiche indubbiamente apprezzabili, dal nostro punto di vista, ma che non necessariamente portano a scelte più efficaci ed azzeccate.

Noi siamo obbligati a dover sempre capire cosa cambiare e cosa salvaguardare, cosa accogliere e cosa rifiutare.

E' sul limes che in tempi di crisi si sono fatti nel bene e nel male tutti gli “imperatori” (cioè, mutatis mutandis, le scelte di governo), è sul limes che si è plasmato il mondo nuovo (non necessariamente migliore), è attraverso il limes, una linea che è anche un crocevia, che si è deciso che strada prendere. Di sicuro, quel che accade al confine conviene osservarlo bene, ed è per questo che le classe dirigenti sotto pressione (se “ricettive”), in tempi di mutamento hanno sentito l'esigenza di spostare fisicamente presso i propri limes la propria capitale, contro ogni logica superficiale di sicurezza; è valso sia per i grandi imperi dell'ovest che dell'est, quando i palazzi hanno abbandonato le sponde del Tevere e del Fiume Giallo, divenute troppo lontane per udire le voci sul futuro.

Ebbene, lo scorso fine settimana, sul confine orientale d'Italia in cui oggi passano ignorandosi la rotta migratoria balcanica e i container della nuova Via della Seta, è accaduto che la cittadina slovena di Nova Gorica (13 mila abitanti e prati ben curati) è stata nominata Capitale Europea della Cultura per l'anno 2025: titolo che per regolamento viene conferito ogni anno a due città appartenenti a due diversi Stati, membri dell'Unione Europea, con l'aggiunta ogni tre anni di una città appartenente a uno Stato candidato.

Nova Gorica ha battuto tutti i suoi connazionali: ha sconfitto la sua grande capitale Lubiana, ha superato la costa brulicante di turisti di Pirano accoppiata al porto di Capodistria, è stata preferita al fascino mitteleuropeo di Ptuj, dopo aver già sorpassato, alla prima selezione, le romantiche Kranj e Lendava.

Proprio così, ha vinto Nova Gorica. Ossia quel “piccolo quartiere” spaesato disegnato da un estimatore di Le Corbusier; quell'arioso boschetto punteggiato di rose e moderni rettangoli condominiali e spuntato dal nulla su un grande cimitero sbancato a mano da torme festanti di giovani pionieri delle magnifiche sorti collettive; quel terno secco di casinò scintillanti al neon, anch'essi in qualche modo inno visibile alle “magnifiche sorti”, seppur più prosaicamente, individuali.

Come ha fatto a vincere Nova Gorica? Come ha fatto a diventare Capitale Europea della Cultura con quei concorrenti? Ci è riuscita perché dentro un efficace proposta culturale di rigenerazione urbana ha osato spezzare il paradigma consolidato da 35 anni (la prima Capitale a essere designata fu Atene nel 1985) per cui, ogni anno, il titolo (coi finanziamenti e il conseguente ritorno di immagine) di Capitale Europea della Cultura viene assegnato a turno su base esclusivamente nazionale, secondo una concezione altamente egalitaria ma allo stesso tempo burocratica e reticente dell'idea stessa di identità europea.

All'Italia sarebbe dovuto toccare nuovamente solo nel 2033 (l'ultima Capitale Europea della Cultura in territorio italiano, fu Matera nel 2019), mentre nel 2025, appunto, la capitale designata doveva essere slovena.

Invece Nova Gorica (“Nuova Gorizia”) si è candidata unita con la città di un altro Stato, per quanto si trattasse di sua “sorella”, divisa dai muri della storia; ha preparato con minuzia i suoi progetti insieme a Gorizia, la “vecchia” Gorizia, la “stara Gorica” che era stata per secoli, contemporaneamente ed elegantemente, neolatina, slava e germanica, quasi una Europa in miniatura.

I due sindaci Klemen Miklavic e Rodolfo Ziberna (il secondo, fatto tanto più notevole, con alle spalle una storia familiare di profughi istriani), hanno per la prima volta rivoluzionato la “occhialuta” (la Coscienza del buon Zeno di Italo Svevo ha proprio a Gorizia la sua illuminazione) prudenza redistributiva e spartitoria di chi persiste nell'immaginare gli Europei come incapaci di pensarsi, di vedersi e di sentirsi semplicemente come tali.

All'annuncio della vittoria, frutto anche del coraggio della Commissione giudicante, un boato di scomposta (perciò autentica) e liberatoria esultanza ha attraversato il confine e la piazza Transalpina che ne è il simbolo, scacciando con la gioia il ricordo di tutti quei boati d'ordigno che hanno fatto di Gorizia, a partire dal Prima Guerra Mondiale, uno dei posti più tormentati della storia. Per chi quella storia la conosce o l'ha subita, è stata una catarsi. Con questo nuovo abbraccio, si apre un palcoscenico di rilancio per due città straordinarie per vicende storiche, valore simbolico e conformazione ambientale ed architettonica; concepite ed auspicate ognuna, in epoche diverse dalla Belle Epoque al Secondo Dopoguerra, come città-giardino esemplari per qualità della vita.

Così, senza poter vantare i valori artistico culturali e il passato degli altri contendenti, ma con una chiara idea di che cosa può essere il futuro, Nova Gorica, l'inaspettata gemma urbanistica sbocciata per contrasto e mimesi sulla antica madre, con un gesto generoso ha battuto tutti.

E insieme, nel claim Go borderless!, Nova Gorica e Gorizia dimostrano cosa può essere l'Unione Europea. Toccava alla Slovenia avere una Capitale europea della cultura; ma se l'è guadagnata anche l'Italia. A pensarci bene per la prima volta, se l'è presa l'Europa, e basta."