Nato nel 1935 in una famiglia ebraica goriziana, Guido Fink fu costretto a lasciare la città all’età di due anni, dopo l’emanazione delle leggi razziali fasciste. La famiglia si rifugiò a Ferrara, ed è lì che Guido, ancora bambino, conobbe Giorgio Bassani.
Nel novembre del 1943, all’età di otto anni, Guido e sua madre riuscirono a sfuggire a un rastrellamento fascista. Una notte di paura, raccontata anni dopo a Bassani con tale intensità che divenne racconto – Una notte del ’43 – e poi film, La lunga notte del ’43 di Florestano Vancini. Ma quella notte non segnò solo una fuga. Fu l’inizio di un percorso critico e umano straordinario. A soli diciassette anni, Fink scriveva già recensioni cinematografiche per L’Unità e La Nuova Scintilla. Il suo sguardo era già quello che avrebbe mantenuto per tutta la vita: preciso, letterario, mai compiaciuto. Capace di tenere insieme cinema e impegno civile, con una particolare predilezione per il cinema americano e mitteleuropeo.
Laureato in Letteratura inglese a Bologna, collaborò per oltre quindici anni con Cinema Nuovo, poi insegnò nelle più importanti università americane – Columbia, UCLA, Princeton, Berkeley – diventando un ponte tra culture. Dal 1999 al 2003 fu direttore dell’Istituto Italiano di Cultura a Los Angeles.
Nei suoi scritti – oggi raccolti in La doppia porta dei sogni – il cinema è sempre parte di un sistema più grande: storia, letteratura, psicanalisi. Una visione interdisciplinare ante litteram, fondata non su mode accademiche, ma su una profonda esperienza biografica e culturale.
E poi, un ultimo gesto d’amore: la sua biblioteca personale, insieme a riviste, articoli, e materiali di studio, è stata donata alla Cineteca di Bologna dalla moglie Daniela e dal figlio Enrico. Un archivio vivo, accessibile, che racconta più di una carriera: racconta una visione del mondo.
Rileggere oggi Guido Fink – la sua voce, la sua storia – significa anche rileggere Gorizia. Una Gorizia che forse ha dimenticato alcuni dei suoi figli migliori. Una Gorizia che può ancora riconoscersi nel suo sguardo aperto, ironico, profondo.
Perché, come lui stesso ha scritto, “imparare a vedere è un esercizio etico, prima che estetico”. E io credo che da qui, da questa città di confine, possiamo ancora imparare a vedere meglio.
Grazie, personalità di spessore a me sconosciuta prima della lettura di questo articolo.
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