Perché Gorizia è chiusa. Storia di una città che ha imparato a difendersi

Chi arriva a Gorizia per la prima volta – e guarda oltre la patina di quiete ordinata, i palazzi severi e la bellezza discreta – spesso percepisce qualcosa di strano. Un silenzio che non è solo urbanistico, ma quasi esistenziale. Un senso di chiusura, non solo fisica, ma mentale. Come se la città si fosse ritirata in se stessa, come una casa che ha tirato le tende e vive nel ricordo.

E chi qui ci vive da sempre, o ci è tornato dopo anni, lo sa bene: Gorizia fatica ad aprirsi. Alle novità, ai cambiamenti, alle persone. Perché? Forse perché è stata ferita troppe volte.

Ha vissuto, nel giro di pochi decenni, più traumi di quanti una città possa normalmente sostenere. Nel 1915, la guerra dell’Isonzo la travolge come un fiume in piena. La sesta battaglia la consegna all’Italia, ma la città è distrutta, svuotata, devastata. Poi arriva l’italianizzazione forzata del Ventennio fascista, che cerca di cancellare la sua anima slava e mitteleuropea, imponendo lingua e identità dall’alto.

Nel 1943, dopo l’armistizio, sono i tedeschi a occuparla. E infine, nell’aprile del 1945, i partigiani jugoslavi entrano in città, ma il loro arrivo non segna una vera liberazione: apre invece una fase di ambiguità, paura, esodo. La "linea Morgan", il confine provvisorio tra la Zona A (occidentale, italiana) e la Zona B (orientale, jugoslava), taglia in due il suo territorio. Poi arriva il Trattato di Parigi del 1947, che sancisce la perdita di gran parte del contado, affidato alla Jugoslavia. Sul lato orientale nasce Nova Gorica. A Gorizia rimane una metà amputata.

Un muro – reale, concreto – separa la città da se stessa. Le strade che un tempo portavano in periferia finiscono in un reticolato di filo spinato. Le famiglie si parlano da un lato all’altro della rete. La Piazza della Transalpina, un tempo snodo vivo, diventa simbolo dell’assurdo: un marciapiede diviso in due, un confine nel mezzo.

Così Gorizia impara a chiudersi. Non per snobismo, ma per sopravvivenza. Ogni trauma rafforza la sua corazza. Ogni perdita la spinge a difendersi di più. Il boom economico passa da altre parti. Le caserme, per un po’, portano movimento. Poi anche quelle vengono dismesse. I negozi chiudono. I giovani partono. E la città, sempre più ripiegata su se stessa, si aggrappa alla memoria.

La chiusura di Gorizia non è rifiuto. È un modo per non crollare. È l’effetto di una storia spezzata, fatta di cesure. È la stanchezza di chi ha cambiato confine più volte di quanto abbia cambiato sindaco. È l’identità complessa, friulana, slovena, italiana "di ritorno", e mitteleuropea in sottofondo, che fatica a trovare un racconto condiviso.

Eppure oggi qualcosa si muove. La città si risveglia piano, come dopo un lungo letargo. GO!2025 può essere una grande occasione, ma solo se sappiamo viverla non come un evento da esibire, bensì come un percorso da costruire. Serve il coraggio di riconoscersi per quello che si è, con tutte le fragilità e la bellezza che ci portiamo addosso. Serve smettere di guardare con sospetto chi arriva, e iniziare a guardarci allo specchio con onestà.

Perché la verità è che Gorizia non è chiusa. È solo in attesa. In attesa di chi sappia bussare con rispetto. Di una voce che sappia raccontarla senza tradirla. E di uno sguardo capace di vedere non solo ciò che manca, ma tutto quello che ancora può rinascere.

La foto è di: www.esercito.difesa.it, CC BY 2.5, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=50801808

1 commento: