Storie di donne: la vita interessante di Marta Sgubin

Che le donne friulane (ovviamente in senso lato geograficamente) siano sempre state apprezzate come grandi lavoratrici, persone fidate alle quali affidare la cura dei bambini lo dimostra la storia, anche quella meno recente. Se, infatti, oggi come oggi si propongono sul mercato investigatori professionali che indagano sulla moralità e serietà professionale di tate e caregiver in un passato non certamente molto remoto era sufficiente dimostrare l’area geografica di provenienza per garantire la necessaria affidabilità. Ne sanno qualcosa le eredi delle aleksandrinke. Fenomeno di massa dell'emigrazione femminile dal Goriziano in Egitto che ebbe inizio nella seconda metà del XIX secolo, poiché durante la costruzione del Canale di Suez e maggiormente ancora dopo la sua apertura, nel 1869, aumentò il numero di uomini d'affari in Egitto, stabilitisi soprattutto ad Alessandria e al Cairo. Ragazze e donne perlopiù d'origine contadina trovarono lavoro da ricche famiglie europee come cuoche, cameriere, balie, governanti e sarte.

In tempi più recenti è stato l’esodo istriano a far migrare uomini e donne, com’è il caso di Lidia Bastianich, nata a Pola nel 1947 ed emigrata negli USA a soli 12 anni. Icona della tv, e madre dell’ancor più famoso Joe che in Friuli ha aperto un’ azienda vitivinicola ed un apprezzato agriturismo, ha legato il suo nome alla cucina italiana. Proprio a New York, a soli 24 anni aveva aperto il suo primo ristorante, il Buonavia e successivamente Villa Secondo, anche questo nel Queens, mentre nel 1981 il Felidia, un simbolo della cucina tradizionale italiana per tutto il mondo e sintesi del suo e del nome del marito.

Ma al di là della voglia di lavorare e di coronare il “sogno americano”, credo che tra le donne friulane che si sono fatte strada negli USA e sono rimaste nel cuore di coloro che le hanno conosciute personalmente la palma d’oro spetti senz’altro a Marta Sgubin. Donna semplice forte dal cuore d’oro, se non avesse deciso di scrivere e dare alle stampe, nel 1998, il suo Cooking for Madam, probabilmente la sua storia non sarebbe mai trapelata. Si dice che nulla avviene per caso e che la cosiddetta legge di attrazione è di fatto l’artefice del nostro destino. Personalmente non ho alcun dubbio che nella nostra vita nulla niente avviene per caso. Tutto quello che ci attiriamo, dagli eventi che viviamo, alle persone che conosciamo sono importanti per noi, per farci crescere e per cogliere ciò che di meraviglioso, o triste, ci regala la vita. Insomma, a mio avviso, sbagliano coloro i quali credono che incontri o situazioni che ci accadono siano casuali. Perché tutto dipende da una forza potente che ci collega all’universo e favorisce determinate conoscenze, relazioni e avvenimenti. Siano essi positivi o negativi. Insomma, è tutta questione di karma. Nel senso che tutto ciò che viviamo ci insegna e ci dà la possibilità di acquisire conoscenze e consapevolezze sempre più profonde. Vorrei proprio che Marta Sgubin la pensasse allo stesso modo, mentre la immagino comodamente seduta in poltrona nel suo bel appartamento in Park Avenue, quasi di fronte alla casa di Caroline, l'unica sopravvissuta della "sua" famiglia Kennedy.

Marta Sgubin aveva un sogno: quello di recitare. Ed intuibile, pertanto, che fin dall'adolescenza sperasse in una vita diversa da quella che le poteva riservare Fiumicello, un paese che oggi non conta nemmeno 5000 abitanti e che, allora, probabilmente ne contava molti meno. Un'estate, mentre si trovava a Venezia a fare la bambinaia, (lavoro che le aveva procurato la sorella) conobbe la moglie del console francese in Italia che era incinta e le propose di seguirla in Francia per prendersi cura della bambina che stava per nascere: Sybille. Dalla Francia Marta segue la famiglia del console francese nella sua nuova sede a Washington ed è lì che un giorno del tutto casualmente, nel 1969, incrocia la strada di Janet Lee, ex signora Bouvier, risposata Auchinloss, ma, soprattutto, madre di Jacqueline, giovane vedova del presidente Kennedy, con due bambini da crescere, Caroline e John John, per i quali, ritiene, la tata friulana sarebbe stata perfetta. E da lì inizia la lunga storia di questa amicizia, perché se all’inizio Martaaveva considerato l’incarico temporaneo e in cuor suo progettava di tornare in Europa molto presto, venticinque anni dopo, quando Jacqueline Kennedy Onassis morì, Marta era ancora con lei. Al momento della sua entrata nella famiglia, Marta era un’insolita combinazione di estrema raffinatezza e inaspettata semplicità. E la cosa non dovrebbe certamente sorprendere, tenuto conto che gli anni della sua giovinezza li trascorse in giro per il mondo in palazzi e castelli delle diverse capitali, con quella che ormai era diventata per lei una famiglia, essendo trascorsi sedici anni dalla sua assunzione. Alla mamma di Sybille si era sempre rivolta in modo formale, chiamandola “Madame”. Nella nuova famiglia chiamò la signora Onassis “Madam”, credendo erroneamente che si trattasse dell’equivalente inglese di “Madame”. Jacqueline le spiegò il vero significato del termine e la sua connotazione un pò osé, ma pregò Marta di continuare a usarlo perché era “veramente grazioso”. Quando i ragazzi alle cui cure Marta Sgubin era preposta diventarono grandicelli e non avrebbero più avuto bisogno di una istitutrice, Marta restò comunque con i Kennedy. Il suo ruolo cambiò naturalmente e divenne governante. Insomma una persona della quale non si sarebbe potuto più fare a meno. Sapeva fare qualunque cosa, ma si fece notare soprattutto per le sue doti in cucina. Così Marta raccolse circa 100 delle ricette preferite dalla famiglia, aggiungendovi i suoi ricordi in Cooking for Madam: Recipes and Reminiscences from the Home of Jacqueline Kennedy Onassis, pubblicato nel 1998 da Scribner [Cucinando per Madam, Campanotto editore, 2002]. Pur “passando le giornate in cucina e in sala da pranzo”, come lei stessa afferma, Marta è stata in grado di offrire un tributo affettuoso a Madam, madre impegnata, nonna amorevole e commentatrice ironica delle vicende familiari.

A Trava, in Carnia, il santuario del rèpit. Una storia da conoscere raccontata per il cinema dalla triestina Laura Samani

Se c’è una cosa che non smette di emozionarmi, nonostante la mia età, è la scoperta di quante siano le cose interessanti (a volte straordinarie) presenti o riguardanti il nostro territorio. Un forziere, in pratica, le cui gemme si svelano, una dopo l’altra, come in una magica caccia al tesor. L’ultima gemma, in ordine di tempo, che mi si è rivelata è il santuario del rèpit, chiamata anche chiesa del respiro, che si trova a Trava, frazione del comune di Lauco. Ma che cos’ha questo santuario di così straordinario da meritarsi, da parte mia, l’appellativo di gemma preziosa del territorio?

Me ne ha parlato per la prima volta una mia cugina, pochi giorni fa, anch’essa meravigliata di aver scoperto un luogo così magico e per puro caso, in occasione di una delle tante scorribande in giro per questo nostro magnifico territorio. Ma la coincidenza più rilevante che può quasi essere considerata una traccia definita nella mappa del tesoro è la contemporaneità che il fatto storico è stato recentissimamente riportato alla luce da una giovane regista e sceneggiatrice triestina, Laura Samani. Regista che, non ho alcun dubbio, farà certamente parlare di sé tenuto conto che il suo film di esordio, “Piccolo corpo” dopo essere stato presentato alla Semaine de la Critique del Festival di Cannes e al Torino Film Festival, ha vinto un premio ai David di Donatello. Piccolo corpo è un dramma intimo e suggestivo sul tema dell’elaborazione del lutto, il bisogno di ribellione, l’autodeterminazione femminile e la ricerca del divino. Un film in pratica, secondo Mymovies, assolutamente da vedere. E così farò!

La storia raccontata in modo così magistrale da Laura Samani, tanto da trovare concordi pubblico e critica nell’applaudire l’opera prima, porta alla luce la storia dei luoghi di culto, siano stati essi santuario, cappella o anche soltanto una semplice chiesa rupestre che offriva ai fedeli di un tempo (la tradizione si è persa alla fine del diciannovesimo secolo) la speranza che anche i bambini morti senza battesimo, e quindi destinati a restare nel Limbo e ad essere sepolti fuori dal cimitero, in quanto non battezzati, avrebbero potuto accedere al Paradiso. Perché nelle chiese del rèpit, anche se per la frazione di un attimo, i bambini ritornavano in vita e quindi potevano essere battezzati. Vero e proprio dramma, quello del Limbo, per i genitori dell’epoca, tenuto conto che oltre al lutto per la scomparsa del figlioletto, avrebbero dovuto sopportare anche l’ingiustizia della mancata sepoltura in terra sacra.

La chiesa “ufficiale” osteggiò la pratica del rito sino alla condanna definitiva avvenuta nel 1755 per mano di Benedetto XIV. Papa Lambertini accusò il rito ed i suoi praticanti di:”Abuso del sacramento del battesimo”. Quest’accusa è contenuta nel De Synodo diocesiana. Nonostante la chiesa ufficiale si fosse allontanata dalla gente e dal loro dolore, la pratica del rito della doppia morte o del ritorno alla vita proseguì sino agli albori del XX secolo. Il protrarsi del rito sino al 1900, periodo in cui è ambientata da storia di Agata in Piccolo corpo, testimonia quanto fosse sentita la necessità di dare pace all’anima del piccolo morto.

Per saperne di più https://www.avvenire.it/agora/pagine/santuari-anti-limbo-beretta_201005210936552700000