L'avventurosa storia di Pierina Emma Savorgnan di Brazzà Cergneu da Gorizia al lago Bajkal

E’ comune che, quando si è giovani, si abbiano molti sogni e aspirazioni per il futuro. In questa fase della vita, si ha la possibilità di esplorare il mondo, di sperimentare nuove cose e di scoprire quali sono le nostre passioni e i nostri interessi. Molti giovani sognano di avere successo nella propria carriera, di trovare un lavoro gratificante e di fare la differenza nel mondo. Altri possono sognare di viaggiare, di esplorare nuovi luoghi e culture, di conoscere nuove persone e di ampliare i propri orizzonti.

I miei sogni d’avventura erano quelli di fare un viaggio lungo la ferrovia Transiberiana. L’immaginavo un'esperienza emozionante e avventurosa, anche se ne sapevo molto poco di essa prima. Questa ferrovia, che attraversa tutta la Russia, è una delle più lunghe e iconiche del mondo, offrendo ai passeggeri una vista spettacolare sulla vasta campagna siberiana e sulle città lungo la strada. Sognare il viaggio sulla Transiberiana rappresentava, per me, la sintesi del desiderio: scoprire luoghi nuovi e sperimentare qualcosa di diverso. Mi rendo conto oggi che, come tutti i sogni, non è sempre necessario prenderli alla lettera. Perché dovrebbe essere utile considerare il significato simbolico del sogno e capire cosa rappresenta per noi personalmente. Ad esempio, il viaggio lungo la Transiberiana potrebbe rappresentare la nostra ricerca interiore, la scoperta di nuove sfide e di nuove possibilità nella vita, o anche la necessità di abbandonare la nostra zona di comfort per raggiungere i nostri obiettivi. Sta di fatto che quello lungo la Transiberiana è un sogno che non ho mai realizzato. E credo proprio che mai realizzerò. Ma al di là del sogno ed in un approccio quindi molto più pratico, storico e geografico, tanto per rimanere coerenti con le nostre origini, c’è un elemento oggettivo di cui sono venuta a conoscenza in tempi molto recenti ed è quello che il lavoro dei friulani nella costruzione della Transiberiana è stato un contributo importante alla realizzazione di quella che può essere considerata una delle più grandi opere di ingegneria del mondo. E si tratta proprio della costruzione della ferrovia Transiberiana, che collega Mosca a Vladivostok, i cui lavori sono iniziati nel 1891 e si sono conclusi nel 1916. Molti operai italiani, tra cui appunto molti friulani, erano stati reclutati per lavorare alla costruzione della ferrovia. In particolare, tenuto conto che gli operai friulani erano noti per la loro abilità nella costruzione di gallerie e ponti. La loro esperienza nella costruzione di opere simili nelle Alpi italiane si era dimostrata utile nella costruzione della Transiberiana, che attraversava diverse catene montuose. La costruzione della ferrovia Transiberiana fu un'impresa monumentale che richiese decenni di lavoro, impegno e sacrificio umano.

I lavoratori impiegati nella costruzione della Transiberiana provenivano principalmente dalla Russia, ma vi erano anche molti lavoratori stranieri, oltre agli italiani, anche cinesi, giapponesi e coreani. Questi lavoratori erano sottoposti a turni di lavoro massacranti, spesso di 12-16 ore al giorno, e venivano pagati in base alla quantità di lavoro che riuscivano a completare. Le condizioni di vita erano estremamente precarie, con poche attrezzature di sicurezza, scarsa igiene e condizioni di lavoro pericolose. Inoltre, i lavoratori dovevano affrontare il clima rigido e i disastri naturali come valanghe, terremoti e inondazioni, che causavano danni alle infrastrutture e mettevano a rischio la vita dei lavoratori. Non è un caso, quindi, se la costruzione della Transiberiana è stata definita "la più grande tragedia umana del XIX secolo" a causa della perdita di vite umane e delle condizioni inumane in cui i lavoratori erano costretti a lavorare. Nonostante le difficoltà, la costruzione della ferrovia fu completata nel 1916, trasformando la Russia e aprendo nuove possibilità di commercio e viaggi.

Ed è su questo tracciato di sassi, di sudore e di sangue che ho scoperto l’incredibile storia della contessa Pierina Emma Savorgnan di Brazzà Cergneu nata a Gorizia il 14 novembre 1846. Era la figlia del conte Ludovico Savorgnan di Brazzà e di Anna Madalen, triestina, di famiglia non nobile. La famiglia non era goriziana; il casato infatti è di Nimis. Ma, come tante famiglie nobiliari aveva casa anche a Gorizia. Infatti, nei registri di nascita disponibili presso la Curia arcivescovile di Gorizia, la famiglia risultava residente al civico 8 di Studeniz, ovvero nell’area dove ancora (seppur in condizioni fatiscenti) si trova palazzo Studeniz, più noto come villa Louise.

Una regista francese, friulana d’origine, Christiane Rorato, nel 2017 ricostruisce una delle pagine dimenticate del lavoro friulano nel mondo e non a caso intitola il suo film I dimenticati della Transiberiana . Affascinata già da tempo dalla terra dei suoi antenati e specializzata nel recuperare fra le pieghe della storia episodi e personaggi poco noti o del tutto sconosciuti ma che si rivelano importanti e di grande fascino, Christiane Rorato ha regala una rappresentazione commovente sull’epopea degli emigranti friulani che, tra la fine del 1800 e gli inizi del ‘900, tra mille difficoltà e disagi, contribuirono alla costruzione della mitica ferrovia siberiana. Lo svolgimento della storia si arricchisce di tante vicende e intrecci nei quali si affacciano personaggi, a loro volta dimenticati, silenti protagonisti di quel tempo. Christiane Rorato è affascinata da uno di questi, tanto da assumerne lei stessa l’interpretazione nel suo film: la contessa Pierina di Brazzà Savorgnan Cergneu, discendente di una nobile famiglia friulana. Vissuta tra l’Austria e il Friuli, a 50 anni decise di seguire il marito ingegnere, Valentino Floreanut (o Floriani) impegnato nei lavori della ferrovia a Missavaia, sulla riva meridionale del lago Bajkal, dove nel tempo si fece conoscere come “la madre degli italiani”, poiché aiutava gli operai a compilare i documenti e a spedire le loro lettere alle famiglie. Fu coinvolta e travolta come tanti altri nostri connazionali dallo scoppio della Rivoluzione d’Ottobre e, quindi, di un avventuroso rientro. La sceneggiatura del film ne riprende i passaggi salienti di questa esperienza, un libretto curato da Livia Giordani e le notizie legate alle vicende familiari ci consentono di ricostruire un ritratto di questa donna intrepida e coraggiosa che, rientrata in Friuli visse novant’anni, attraversando tutta la metà dell’Ottocento sino al 1936. Ma partiamo dall’inizio.

La contessa Pierina Savorgnan di Brazzà – secondo quanto racconta Alberto Vidon - arrivò in Siberia seguendo il marito, Valentino Floriani (o Floreanutti) di Nimis, impegnato come concessionario nei lavori sulla tratta della ferrovia Circumbaikalica. A partire dal 1897 si stabiliscono a Irkutsk dove assunse un ruolo di rilievo nella vita sociale sia per la sua condizione nobiliare che per la sua preparazione culturale attestata dalla conoscenza di più lingue. Ottenne anche l’incarico di insegnante di latino e tedesco nel locale ginnasio, e svolse il ruolo di corrispondente dalla Siberia di alcuni giornali europei, tra i quali il Fremdenblatt di Berlino. Negli anni della Prima Guerra Mondiale venne preposta al servizio sulla censura per la regione della Siberia orientale. Il professore Salvatore Minocchi dell’università di Pisa, dopo aver visitato i cantieri sulla Transiberiana nel 1903, così la ricordò in un discorso tenuto al Collegio Romano alla presenza della regina d’Italia Margherita: “Italiana di natali e di cuore, ella fa le veci di un console. A lei, colta e pratica della società, ricorrono i nostri operai, che ella accompagna dal medico, dall’avvocato, negli uffici di polizia e assiste chi ha da aggiornare i passaporti: e, occorrendo, ottiene per loro biglietti ferroviari gratuiti… Per suo interessamento, il dott. Bergmann fornisce medicine gratuite ai bisognosi e fa un trattamento di favore a chi ricorre alla sua clinica.” L’eccezionalità della figura si rivelò fin dall’inizio della sua permanenza in Siberia, infatti quando giunse a Irkutsk nel 1897 vi trovò molti lavoratori italiani che sono senza lavoro per una temporanea mancanza di fondi da parte delle autorità preposte alla realizzazione della Transiberiana. Essi si ritrovano bloccati perché il loro passaporto era scaduto senza che il consolato italiano di Mosca avesse risposto alle loro richieste di rinnovo dei documenti; la contessa allora si prodigò in prima persona, fece convocare gli emigrati e compilare una lista con i loro dati personali. Spedì al console la documentazione, dichiarandosi pronta a rivolgersi alle autorità superiori in assenza di un’adeguata e pronta risposta. Non solo il suo intervento risolse la questione, (infatti grazie al suo intervento deciso giunsero le concessioni dei documenti rinnovati necessari per permettere alle maestranze di riprendere il lavoro) ma poiché il consolato era troppo lontano anche geograficamente dalle necessità degli italiani Pierina Savorgnan di Brazzà ottenne di essere nominata quale rappresentante per la città di Irkutsk. Così continua Minocchi nel suo discorso elogiativo: “Grandi e molteplici sono le sue benemerenze. I nostri emigrati di Irkutsk e delle rive del Bajkal benedicono il nome della solerte e generosa nobildonna che essi amano chiamare col nome di Madre degli Italiani”.

Gli avvenimenti della Rivoluzione Russa travolsero, comunque, Pierina Savorgnan di Brazzà come i molti suoi compatrioti: la sua abitazione a Irkutszk fu oggetto di saccheggi da parte dei rivoluzionari. Nell’assalto e nei mesi successivi perse tutto. Memorie e averi frutto di vent’anni di lavoro e sacrifici, tutto ciò oltre all’età ormai avanzata la spinse a desiderare di tornare in Italia. Relativamente a questi drammatici avvenimenti, il volumetto di Livia Giordani traccia, anche attraverso gli scritti della contessa pubblicati sulla rivista La Patria del Friuli. Nel maggio del 1921 intraprese un avventuroso viaggio di rientro in patria; dopo aver raggiunto Vladivostok, s’imbarcò, infatti, per l’Europa su una nave giapponese: la Texas Maru, che tra gli altri passeggeri, riportava verso casa numerosi trentini e giuliani ex combattenti dell’Imperial Regio esercito austriaco i quali, fatti prigionieri dai russi durante la Prima Guerra Mondiale sul fronte della Galizia, subìrono la prigionia ed il lavoro forzato in Siberia. Assieme alla contessa e ad altri italiani protagonisti dell’epopea della Transiberiana, scapparono tutti dallo sconvolgimento rivoluzionario. Ma la cattiva sorte si abbattè su alcuni che non ce la fecero a raggiungere Trieste, porto di destinazione, perché morirono durante il lungo viaggio per tubercolosi o altri malanni. La contessa invece riuscì a raggiungere Nimis lasciando un memoriale nel quale descrive gli orrori della guerra civile e le condizioni avventurose del suo viaggio di rientro.”

Al di là della situazione tragica personale di chi ha perso tutto, per Pierina di Brazzà il dolore più grande è stato quello di rimanere inascoltata alla richiesta di aiuto per i tanti italiani che erano rimasti in Siberia senza avere la possibilità di fare ritorno a casa. In un apposito capitolo Per i dispersi e i prigionieri in Russia, Livia Giordani fa sintesi di ciò che è stato fatto e di ciò che si sarebbe potuto fare, portando anche alla luce l’energica azione di sensibilizzazione che don Roberto Merluzzi di Risano, “vulcanico sacerdote che aveva vissuto la trincea con i suoi alpini” e che con Pierina di Brazzà mantenne una fitta corrispondenza. Ma non ci fu “nessun intervento che rompesse il silenzio da parte del consolato italiano di Mosca, dell’Ufficio prigionieri della Santa Sede, della Croce rossa e delle organizzazioni umanitarie che operavano faticosamente.

i I dimenticati della Transiberiana in lingua francese (originale) sottotitolato in friulano è disponibile a questo indirizzo: https://arlef.it/it/progetti/viac-in-friul/

ii A. VIDON, in Sogni e lavoro nelle storie dei Friulani, Sot la nape, p. 84-85 https://opac.rivistefriulane.it/ricerca/dettaglio/sogni-e-lavoro-nelle-storie-dei-friulani-la-ferrovia-transiberiana-in-un-libro-c/8674

iii L.GIORDANI Una contessa italiana dalla Transiberiana alla Rivoluzione. Pierina Savorgnandi Brazzà Cergneu, Gaspari editore, collana i Gelsi, 2021

Ricordando Gorizia: racconto dal futuro

C'era una volta una splendida città situata al confine tra Italia e Slovenia chiamata Gorizia. Che nei primi decenni del secolo scorso divenne famosa perché, assieme a quella che era la parte nuova della città, all’epoca appartenente ad un altro Stato, era stata dichiarata capitale europea della cultura. Questo luogo magico era circondato da una bellezza naturale mozzafiato, con colline verdi, vigne rigogliose e un fiume, incredibilmente azzurro, che scorreva dolcemente attraverso la città. Gorizia era anche una città ricca di storia e cultura. Le sue strade acciottolate erano costellate di antichi edifici, chiese imponenti e piazze affascinanti. I suoi abitanti erano fieri della loro eredità e lavoravano istancabilmente per preservarla.

Un giorno, un giovane di nome Gianluca decise di visitare Gorizia. Aveva sentito parlare della sua bellezza e della sua ricca storia e voleva vederla con i suoi occhi. Gianluca arrivò in città con una valigia piena di aspettative e una mente aperta pronta ad immergersi in questa nuova avventura.

Appena piantò i piedi sulle antiche pietre del centro storico, Gianluca si sentì come se fosse tornato indietro nel tempo. Le vie strette e sinuose erano affollate di negozi pittoreschi, caffè accoglienti, trattorie ed osterie che emanavano deliziosi profumi. Si addentrò nel dedalo di strade e scopri un'atmosfera incantevole, dove il passato e il presente si mescolavano armoniosamente.

Gianluca decise di visitare il Castello di Gorizia, (che finalmente era stato riaperto al pubblico) una fortezza imponente che si ergeva maestosa sulla cima di una collina. Salì lungo un sentiero tortuoso, ammirando il panorama che si svelava man mano che saliva. Quando raggiunse la cima, rimase senza fiato. Il castello si ergeva maestoso, con le sue torri di pietra che sembravano toccare il cielo. Gianluca esplorò le sue sale antiche e ammirò le opere d'arte e gli oggetti storici che raccontavano la storia della città.

Poi, Gianluca si diresse verso il parco al di là dell'Isonzo, un'oasi verde nell'immediata periferia della città. Camminò lungo i sentieri ombrosi, ascoltando il canto degli uccelli e osservando gli alberi secolari. Incontrò anche alcuni abitanti del luogo che facevano pic-nic, suonavano la chitarra o leggevano libri all'ombra degli alberi. Gianluca si sentì ispirato dalla tranquillità del parco e si sedette su una panchina per riflettere sulla sua visita. Mentre osservava le persone che passavano felici per le strade ed i bambini che giocavano nei parchi, Gianluca capì che Gorizia era molto più di una semplice città. Era un luogo che catturava il cuore di chiunque lo visitasse. Era un connubio di cultura, storia e natura, un'esperienza che avrebbe arricchito la vita di chiunque avesse avuto la fortuna di scoprirlo. Dopo alcuni giorni meravigliosi trascorsi a Gorizia, Gianluca si preparò a partire, ma portava con sé i ricordi preziosi di quei giorni trascorsi nella splendida città. Aveva conosciuto persone affascinanti, assaggiato piatti deliziosi e creato ricordi indelebili.

Mentre si allontanava da Gorizia, Gianluca si rese conto che il suo viaggio aveva avuto un impatto profondo su di lui. Aveva imparato a valutare la bellezza delle cose semplici, ad apprezzare la storia e la cultura di un luogo e ad essere aperto alle nuove esperienze. Tornato a casa, Gianluca raccontò ai suoi amici e alla sua famiglia delle meraviglie di Gorizia. Parlò dell'atmosfera affascinante del centro storico, dei panorami mozzafiato dal castello e dell'armonia che pervadeva i diversi parchi e giardini. Raccontò di come ogni angolo della città fosse ricco di storie e di come la gente fosse accogliente e orgogliosa delle sue radici.

Le sue parole suscitarono curiosità e interesse in amici e conoscenti, che iniziarono a loro volta a visitare Gorizia. Gianluca aveva acceso una scintilla in loro, aveva trasmesso l'amore e l'entusiasmo che aveva vissuto nella città. Con il passare del tempo, Gorizia divenne una destinazione sempre più popolare. Le sue strade si riempiono di turisti affamati di scoperta, desiderosi di immergersi nell'atmosfera unica della città. I residenti di Gorizia, con il loro spirito caloroso e ospitale, accolsero i visitatori a braccia aperte, condividendo la loro storia e la loro passione per il luogo in cui vivono. Gorizia continuò a prosperare, mantenendo intatta la sua autenticità e la sua bellezza. Le generazioni future cammineranno sulle stesse pietre che Gianluca aveva calpestato, ammirando gli stessi panorami e creando nuovi ricordi indimenticabili. E così, la storia di Gorizia, con la sua magia intramontabile, si perpetuò nel tempo. Una città che aveva il potere di trasformare gli animi, di aprirli a nuove esperienze e di far scoprire la bellezza nascosta nelle cose più semplici. Gorizia era destinata a restare nel cuore di coloro che l'avevano visitata, come un tesoro prezioso da custodire per sempre.

Composto da ChatGPT (con soltanto alcune piccole integrazioni da parte mia)

Mi sono divertita moltissimo in questa esercitazione con l'AI. Scoprendo un mondo nuovo che, se ben utilizzato, potrà certamente facilitarci la vita.

La bellissima foto del castello è di Arianna Simcic. Donna e artista creativa le cui foto ho utilizzato più volte per questo blog.

Gorizia: appena un passo più in là dalla torta di ciliegie rosso sangue

Al principio fu infatuazione, ricordo i pomeriggi trascorsi su Youtube a cercare, guardare filmati e video su Gorizia, poi la prima visita di persona: nonostante fosse un novembre grigio e piovoso fu amore a prima vista; quello che prova la puerpera appena prende fra le braccia il cucciolo di uomo, paonazzo e smagrito per la fatica del parto ma, ai suoi occhi, per un funzionale eccesso chimico e ormonale, subito radioso e bellissimo. Forse una madre vede al di la della forma qualcosa che ha a che fare con il disegno spirituale che in ogni vita si cela. Così, anche senza i suoi giardini fioriti, lo spirito di questa città mi è apparso in tutta la sua potenza. Poi è iniziata la ricerca, curiosa di ogni aspetto: dalla cucina, ai palazzi, dalle piazze ai giardini, a coloro che questa città abitano ed hanno abitato, sempre avvertendo una eco lontana che mi suggeriva qualcosa che qui era stato ed ora sussurrava lieve come un vento appena accennato.

Dove oggi i visitatori poggiano spensierati i piedi, sulla targa di piazza Transalpina, che ricorda l'antico confine, divertiti da questa particolarità tutta goriziana, un tempo vi erano reti e postazioni di controllo e questa linea rossa segnava l'intera città snodandosi fra le strade, interrotta qua e là dai valichi. Dai racconti di un’amica goriziana ho appreso delle code per mostrare i documenti e poter passare il confine, era questa un’ esperienza che avevo fatto anche io, le tre volte in cui da Berlino ero stata portata nella “Ost Zone”. Cosi veniva chiamata, con un certo fastidio, la parte della città in mano ai sovietici, il cosiddetto settore orientale. Ero stata in coda anch’io, bambina, e ricordo bene la strana sensazione di avere accanto militari in assetto di guerra, piuttosto burberi e le tante squadre armate che giravano per Alexanderplatz, due mondi: da un lato la scarna austerità di una città socialista, i muri di molti palazzi ancora feriti dai proiettili dell'ultima guerra, dall'altro, a poche strade di distanza, la Berlino sfarzosa dell'imponente KaDeVe, il grande magazzino del lusso, nato nel 1907 per portare in città l'alta moda parigina, vero e proprio tempio del consumismo più sfrenato. Un piccolo mondo racchiuso, come quelle sfere di vetro che contengono un paesaggio miniaturizzato, circondato dal mondo reale, una dimensione segnata da una relazione schizofrenica, sempre in balia degli umori politici e di quanto “fredda” si facesse l'atmosfera; non ne comprendevo il motivo allora, ma ricordo molto bene i timori degli amici berlinesi, rinchiusi nella loro “riserva” e circondati da pressioni ostili.

Degli anni di Gottinga ricordo una coppia di professori, amici di famiglia, non dimenticherò mai la torta di ciliege dal sapore aspro e dolce insieme e dall'intensa colorazione rossa che spuntava formando macchie irregolari dentro la frolla friabile, con cui ci deliziava Tinka, la padrona di casa. Avevano finalmente, dopo svariati anni, raggiunto il traguardo della cittadinanza nello stato che li aveva accolti in fuga dalla Jugoslavia. Non so da che regione venissero della federazione, allora si diceva Jugoslavia e questo bastava, si sussurrava della loro fuga riuscita e di come la vita fosse tornata serena dopo lunga sofferenza.

Ho più volte notato che, dietro a discreta e composta bellezza si celi spesso altrettanta discreta e composta sofferenza e che sovente persone di grande umanità si portino nel cuore pesanti fardelli. Certe volte questi riescono a trasmutare, dalla notte buia, dalla nigredo di tormentate esperienze esistenziali ad una luce iniziatica di trasformazione. Si compie il passaggio alchemico verso la sublimazione del dolore, altre volte questo non accade, talmente profondo ed insopportabile il dolore da gettare ai limiti di se, verso la perdita della propria identità fino anche alla follia.< p> A Gorizia e a Nova Gorica ho avvertito riecheggiare un dolore sordo, lontano ma pure presente come un'ombra di Hiroshima, impronta stampata sui muri: polverizzato il soggetto, resta una traccia indelebile di quel passato dai risvolti talmente foschi da aver lasciato l'ombra silente di sè. Per cercare di comprendere una realtà tanto complessa ho dovuto gettare lo sguardo oltre quel confine che oggi non esiste più, ma che di tutto questo territorio ha probabilmente contribuito a forgiare la tempra. Ho fin da subito avvertito che vi era transitato il pesante fardello dell' identità nazionale, intesa come chiusura e operata attraverso la lingua e la rivendicazione di riconquiste e glorificazioni nazionali che troppo spesso, purtroppo, sono scivolate nelle atrocità del nazionalismo. La memoria è uno strumento identitario potente e sano purché si faccia portavoce di una sincera volontà di integrazione: una identità virtuosa dovrebbe declinarsi nell'accoglienza, nell'ascolto a e nell'apertura e la memoria stessa dovrebbe essere al servizio della messa in discussione della storia, solo così credo possa avere una funzione di vigilanza virtuosa contro tutti i risvolti autoritari e nefasti che da essa potrebbero scaturire.

Là dove la memoria resti viva, aderente alla realtà, le radici ben ancorate nella vita stessa nelle sue necessità più basiche: dal cibo, che non è mero alimentarsi, al modo di stare al mondo, come saper gioire e come soffrire, affrontare difficoltà, dolori immensi e piccole gioie quotidiane, perché è nell'osservazione delle anse esistenziali, in cui tutti ci muoviamo indistintamente che diviene chiara l'appartenenza ad una sola grande comunità umana. Questa osservazione ci risparmierebbe tante atrocità, nella semplicità della presa d'atto della comune storia che tutti i destini muove.

Gorizia è una città affacciata al balcone di un altrove e per un decina di giorni ha assistito da quella posizione, agli avvenimenti che ne avrebbero decretato la storia recente. Fu proprio in Slovenia infatti che il 27 giugno 1991 si compì il primo atto ufficiale di guerra, su territorio europeo, dal 1945. Episodio che decretò l'inizio della Guerra dei Balcani, quella che in Slovenia fortunatamente si protrasse per soli 10 giorni, ma che nei successivi quattro anni, porterà morte e distruzione in quei territori sgretolatisi dopo la caduta della Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia. Il 25 giungo del 1991 la Slovenia dichiara la propria indipendenza dalla Federazione jugoslava e due giorni dopo apre il fuoco contro l'esercito della JNA (Jugoslovenska narodna armija), nei cieli sopra Lubiana, colpendo due elicotteri dell'Armata Popolare Jugoslava. Ancora una volta, come già per la prima guerra mondiale, il centro radiante, la miccia che infiammerà il conflitto, allora ad opera di uno studente irredentista serbo, in nome della liberazione della sua terra dal dominio asburgico, avverrà in questi territori cerniera fra oriente e occidente.

La Slovenia con la tempestiva uscita dalla federazione è riuscita a limitare i danni con un conflitto lampo, definito la guerra dei 10 giorni, lo stesso purtroppo non è accaduto nelle altre regioni. La crescente radicalizzazione dovuta all’ impoverimento culturale e la mancanza di prospettive, sopratutto per i giovani, attori cui è rivolta particolare attenzione, in vista di strategie che pongano al centro dei loro interessi proprio questa importante categoria sociale. Con lo scopo di operare misure in risposta al terrorismo, alla radicalizzazione e all'estremismo violento nei Balcani occidentali, l'Unione Europea, attraverso progetti di cooperazione che hanno preso il via con il processo di Berlino del 2014, ha intrapreso negli anni iniziative in tal senso, ne è un esempio la Western Balkan Counter Terrorism initiative (WBCTI) che cerca di massimizzare le politiche di cooperazione regionale. Una parte dei progetti identifica i giovani come attori principali e proprio su questo segmento di società concentra i suoi obbiettivi: il potenziamento della resilienza, strumento ritenuto fondamentale in risposta e per l'attuazione di strategie atte a contrastare la minaccia estremista e questo attraverso operazioni volte ad aumentare opportunità formative ed economiche in quei territori, nella prospettiva di una graduale integrazione europea della regione balcanica.

Il dibattito è molto controverso e complesso e sono sprovvista di competenze adeguate per affrontarlo, tuttavia osservo uno slancio virtuoso nella collaborazione transfrontaliera, nell'ottica della cooperazione improntata a processi di ampliamento e collaborazione che scaturiscono da esigenze analizzate e riconosciute sul territorio. Ne è un esempio la strategia macroregionale EU Strategy for the Adriatic and Ionian Region ( EUSAIR) il cui fine è quello di affrontare coordinando insieme le esigenze dei diversi territori all'interno dei paesi partecipanti, tra i quali Italia e Slovenia. Una collaborazione specifica, all'interno della macroregione adriatico ionica, il cui obbiettivo generale è quello di promuovere la prosperità economica e sociale, affrontando insieme alcune sfide comuni. Gli obbiettivi, tutti volti alla sostenibilità ambientale attraverso strategie innovative in diversi settori: dalla mobilità urbana ai processi di trasformazione virtuosi dei sistemi produttivi, come anche l'incentivazione di un turismo consapevole e la creazione di tecnologie innovative per il contrasto ai cambiamenti climatici, dovrebbero, almeno nelle intenzioni, favorire una crescita armoniosa di tutti gli attori partecipanti. Il progetto è ambizioso, incontra ancora notevoli ostacoli sopratutto per la difficoltà di coordinamento dei vari soggetti. Ma la visione sussiste e, auspicabimente, anche l'impegno per la creazione di una nuova coesione sociale e territoriale nel cui quadro poter valorizzare le strategie macroregionali, per favorire l'integrazione e l'allargamento ad un più ampio respiro, superando barriere e confini, chiusure e introversioni terreno fertile di nuovi conflitti. Giovanna Campagna