Eppure, il Giubileo — almeno nelle intenzioni — dovrebbe unire. Dovrebbe rappresentare un tempo di apertura, di pellegrinaggio, di fraternità. Invece, nella realtà che viviamo qui a Gorizia, il Giubileo entra dalla porta della diffidenza, sotto forma di giustificazione per mantenere un confine che da due anni ha smesso di essere simbolico.
Per chi abita queste terre, per chi vive il confine ogni giorno — non come idea, ma come realtà concreta — la proroga non è un dettaglio tecnico. È un gesto politico. È un segnale. E stride profondamente con tutto ciò che GO!2025 sta cercando di costruire. Ci troviamo in un anno in cui Gorizia e Nova Gorica si propongono come capitale europea della cultura. Parliamo di incontri, di dialogo, di convivenza. Ma lo facciamo mentre si continua a controllare chi passa da una parte all’altra della città.
La Slovenia, va detto, non ha adottato alcun controllo nei confronti dell’Italia. I suoi provvedimenti si riferiscono solo ai confini con Croazia e Ungheria. Quello tra Italia e Slovenia resta, per ora, un confine vigilato a senso unico.
E allora vale la pena domandarsi: che tipo di Giubileo ci aspetta? Che senso ha parlare di accoglienza, se contemporaneamente blindiamo le vie d’accesso? Quanto è sostenibile, culturalmente e umanamente, un’Europa che celebra l’unione da una parte e la sospende dall’altra? A questo punto la domanda vera non è più: fino a quando, ma: che prezzo siamo disposti a pagare per sentirci più sicuri?
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