Ho appena finito di leggere Il suicidio di Israele di Anna Foa. Un libro complesso e limpido allo stesso tempo, che affronta senza slogan parole oggi continuamente piegate e strumentalizzate: ebraismo, identità, sionismo. Foa scrive con chiarezza, senza semplificare, e costringe chi legge a distinguere, a non confondere piani diversi, a non trasformare la storia in una clava.
Chiudendo il libro, inevitabilmente, sono tornata a riflettere sulla memoria. Il 27 gennaio si avvicina, ma lo ribadisco con convinzione: non amo le ricorrenze ufficiali. Non perché siano inutili, ma perché troppo spesso rischiano di diventare un gesto automatico, un rito che si consuma in un giorno e poi si dissolve. La memoria, quella vera, non segue il calendario. Arriva quando qualcosa la riattiva, quando un fatto, una lettura, un episodio la rende improvvisamente urgente.
Oggi, ad esempio. Proprio oggi una cara amica, profonda conoscitrice della cultura ebraica goriziana, mi ha inviato una fotografia scattata davanti alla sinagoga di Gorizia. Sul cartello che indica gli orari di apertura è stato apposto un adesivo con la scritta: “Palestina libera – boicotta Israele”. Non entro qui nel merito del conflitto israelo-palestinese, né della legittimità del dibattito politico. Ma un gesto del genere, compiuto su un luogo di culto o su un museo (qual è oggi), in una città come Gorizia, non è neutro. Non è una presa di posizione astratta. È un atto che colpisce simbolicamente una comunità, la sua storia, la sua memoria. E rivela quanto facilmente si scivoli dalla critica politica alla confusione, dall’attualità alla rimozione del passato.
Ed è qui che Gorizia torna a imporsi con tutta la sua specificità. Gorizia non è una città qualsiasi. Dopo l’8 settembre 1943 non fu amministrata dalla Repubblica Sociale Italiana, ma inglobata direttamente nel Reich, nella Zona d’Operazioni del Litorale Adriatico. Questo rese la persecuzione degli ebrei immediata, diretta, tedesca. Ma c’è un elemento che non può essere taciuto, e che per troppo tempo è stato sfumato: l’altissima percentuale di ebrei deportati da Gorizia – la più alta in Italia – non si spiega solo con l’efficienza tedesca. Si spiega anche con l’aiuto fornito dai fascisti locali.
Le liste non si compilano da sole. Le case non si individuano senza qualcuno che indichi chi abita dove. In una città piccola, compatta, dove tutti sanno tutto di tutti, la collaborazione locale fu determinante. I tedeschi trovarono un terreno già preparato: informazioni, segnalazioni, delazioni. È anche per questo che a Gorizia i rastrellamenti furono così rapidi ed efficaci, e che così pochi riuscirono a salvarsi.
Questo non attribuisce a Gorizia un “primato dell’infamia”, perché le delazioni ci furono ovunque in Italia. Ma qui il contesto di confine, la dimensione ridotta della città e la collaborazione fascista locale resero la macchina persecutoria particolarmente letale. E soprattutto resero ogni storia immediatamente riconoscibile: un cognome, una scala, una via. Nulla si perde nell’anonimato.
Quando in *Donne tra due mondi* ho raccontato la storia di Ester, non ho voluto aggiungere una voce astratta alla Shoah. Ho voluto restituire alla città un frammento della propria storia rimossa. La notte tra il 23 e il 24 novembre 1943, le urla sulle scale, i camion in via Ascoli, le famiglie portate via nel giro di poche ore non sono un capitolo lontano: sono avvenute qui, nello spazio urbano che ancora attraversiamo.
Per questo episodi come l’adesivo sulla sinagoga non possono essere liquidati come marginali o innocui. Perché a Gorizia ogni parola scritta sui muri, ogni simbolo, ogni gesto che tocca la memoria ebraica cade su un terreno già segnato. E perché distinguere, oggi più che mai, tra critica politica e rispetto della storia non è un esercizio intellettuale, ma una responsabilità civile.
Ecco perché scrivo ora, e non il 27 gennaio. Perché la memoria non è una cerimonia. È un’attenzione costante. È la capacità di riconoscere quando il presente riapre una ferita del passato. E Gorizia, se vuole davvero dirsi una città consapevole della propria storia, non può permettersi di ricordare solo per appuntamento.


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