Gorizia XXL – Una città, due lingue, un confine che si apre

Riflessioni attorno all’idea di una Gorizia transfrontaliera. Negli anni in cui la parola “confine” evocava ancora separazione, diffidenza, linee invalicabili sulle mappe e nelle menti, Isonzo–Soča ha scelto la strada del dialogo. Della doppia voce. Del bilinguismo come orizzonte culturale. Una scelta editoriale che è diventata – grazie anche al lavoro di Dario Stasi e oggi di Andrea Bellavite – un principio identitario.

All’interno di questa visione plurale si inserisce con forza la proposta di Guido Germano Pettarin, da anni convinto sostenitore di una Gorizia “XXL”, finalmente riunita con Nova Gorica in un’unica entità urbana, culturale e – auspicabilmente – anche amministrativa. La sua è una visione forte, ottimista, programmatica. Una visione che poggia su basi storiche e simboliche, ma anche su proposte concrete: trasporti unificati, teleriscaldamento condiviso, una regia europea per affrontare le disparità fiscali e salariali, una progettualità comune per il commercio e la cultura. Eppure, qualche dubbio resta.

Davvero – mi chiedo – chi vive da una parte e dall’altra del confine si sente già parte di una stessa comunità? Pettarin sostiene di sì, almeno per le generazioni più giovani. L’inglese, dice, è la nuova lingua franca che abbatte i muri. Gli anziani, invece, portano ancora ferite aperte, e non si può che comprendere il peso delle storie familiari. Ma basterà l’inglese – mi chiedo – a tener viva la memoria plurilingue di questo territorio? Pettarin risponde che le lingue storiche non devono essere sostituite, ma integrate: friulano, sloveno, italiano, tedesco… e perché no, anche l’ebraico. Un mosaico da ricomporre.

Certo, la Capitale europea della cultura 2025 ha dato una spinta decisiva. Ma cosa accadrà dopo? Pettarin è chiaro anche qui: “Go!2025 è un trampolino, non un traguardo”. Sta a noi non disperdere l’energia, non ridurre tutto a una “bellissima e costosissima festa di paese”. La sfida è quella di proiettarsi al 2055, non di fermarsi al 2025.

È una visione che entusiasma, ma che solleva anche domande. Come coinvolgere davvero chi la città la abita giorno per giorno? Come evitare che questo futuro, immaginato con passione, escluda chi ha uno sguardo più cauto, o semplicemente diverso? Pettarin non teme il confronto. Anzi, lo reclama. Con franchezza. Con qualche spigolo. Perché – dice – oggi ogni luogo di cultura dovrebbe tornare a essere un agone di discussione. I cineforum sono spariti, i partiti sono diventati comitati elettorali, i social offrono solo superficie. Ma proprio per questo, forse, ogni spazio è buono per riprendere a parlare davvero. Di città. Di identità. Di futuro.

Come sempre, più che una sintesi definitiva, queste righe vogliono essere un invito al confronto, alla partecipazione, alla costruzione paziente e collettiva di un orizzonte comune. Perché ogni città – e a maggior ragione una città di confine – è fatta di voci che si incontrano, si intrecciano, si ascoltano.

Se vuoi, puoi lasciare un commento qui sotto. Anche questo è un modo per continuare il dialogo. .

La lingua batte dove il Friuli duole. Multilinguismo e identità a Gorizia

Nelle scorse settimane, sfogliando il Piccolo, mi sono imbattuta in un articolo che mi ha colpita. Lo firma Marco Stolfo, dottore di ricerca in Storia del federalismo e dell’unità europea, e dal 3 marzo 2025 ricercatore in Storia del pensiero politico presso il Dipartimento di Scienze giuridiche dell’Università di Udine, attento e da sempre impegnato sui temi delle minoranze linguistiche. Il titolo non passa inosservato: “La lingua batte dove il Friuli duole”. L’occasione è la quarta Conferenza regionale sulla lingua friulana, convocata dal Consiglio regionale e organizzata dall’Arlef.

Ma Stolfo non si limita a riportare i lavori della conferenza. Invita – con garbo ma fermezza – a guardare oltre la retorica. A chiederci se davvero, a oltre vent’anni dalla legge 482 del 1999, l’Italia ha fatto abbastanza per tutelare le sue lingue minoritarie. Spoiler: non abbastanza. E, come chi scriveva già nel 2019 nel contributo intitolato “La lingua batte dove l’Italia duole”, il dolore è ancora lì, vivo. Solo che oggi prende il nome di Friuli.

E Gorizia? Gorizia sta in mezzo. Come sempre. Al margine e nel centro. Non è terra friulanofona nel senso stretto, ma è attraversata dal friulano. Lo sfiora, lo ascolta, lo respira. E poi lo sloveno, il tedesco asburgico che ha lasciato tracce fonetiche nel dialetto, l’italiano, e quella parlata urbana che qui chiamiamo “goriziano” – un impasto di tutte queste lingue, modellato nei cortili e nei mercati, nei giardini pubblici e nei portici silenziosi.

Io sono figlia di un friulano. A casa si parlava in dialetto, perché mia madre era bisiaca, ma mio padre e mia nonna si esprimevano in friulano. Non l’ho mai parlato fluentemente, ma l’ho sempre capito. È rimasto dentro di me come un basso continuo, una radice che non si vede, ma che tiene in piedi la pianta.

Il friulano non è una lingua unitaria. Cambia da valle a valle, da borgo a borgo. Ma è proprio questa varietà a renderlo vivo. E proprio per questo non si può immaginare una sua “difesa” senza legarla a un discorso più ampio: quello del plurilinguismo come bene comune, come chiave per leggere il territorio.

A Gorizia, troppo spesso, la pluralità linguistica è stata vista come un problema, come un impiccio. Come qualcosa da regolare, da ridurre, da semplificare. E invece è una risorsa, un dono. Non una ferita, ma una possibilità.

Valorizzare il friulano – come invita a fare Stolfo – non significa sottrarre spazio ad altre lingue. Significa costruire un territorio capace di riconoscere la sua identità complessa. Un’identità che non si incasella in una lingua sola, ma si riconosce nel passaggio fluido da una all’altra. Nella voce di un nonno, nei giochi dei bambini a scuola, in una canzone che non si traduce perché altrimenti perde sapore.

Il dialetto goriziano, ad esempio, non è friulano, né triestino. È una lingua a sé, con radici venete, inflessioni slovene, e tracce del tedesco austro-ungarico. Lo si riconosce nella cadenza, in certe parole che esistono solo qui. Eppure, nessuno lo insegna. Nessuno lo protegge. Nessuno lo considera “lingua”. E invece, lo è. Come lo è ogni lingua che nasce da una comunità viva.

Nel suo articolo, Stolfo ci ricorda che la tutela linguistica non è solo una questione culturale, ma politica. Perché la lingua è appartenenza, è memoria, è visione del mondo. E se non la riconosci, se la lasci spegnere, perdi una parte di te. La lingua batte dove il Friuli duole. Ma può anche curare. Può aprire, includere, guarire. A patto di darle spazio, e rispetto.

Gorizia, che è vissuta troppo a lungo sul filo della frontiera, oggi può scegliere di vivere nel centro della pluralità. Non più città ferita dalle lingue, ma città che parla con più voci. E le ascolta tutte.