Ma Stolfo non si limita a riportare i lavori della conferenza. Invita – con garbo ma fermezza – a guardare oltre la retorica. A chiederci se davvero, a oltre vent’anni dalla legge 482 del 1999, l’Italia ha fatto abbastanza per tutelare le sue lingue minoritarie. Spoiler: non abbastanza. E, come chi scriveva già nel 2019 nel contributo intitolato “La lingua batte dove l’Italia duole”, il dolore è ancora lì, vivo. Solo che oggi prende il nome di Friuli.
E Gorizia? Gorizia sta in mezzo. Come sempre. Al margine e nel centro. Non è terra friulanofona nel senso stretto, ma è attraversata dal friulano. Lo sfiora, lo ascolta, lo respira. E poi lo sloveno, il tedesco asburgico che ha lasciato tracce fonetiche nel dialetto, l’italiano, e quella parlata urbana che qui chiamiamo “goriziano” – un impasto di tutte queste lingue, modellato nei cortili e nei mercati, nei giardini pubblici e nei portici silenziosi.
Io sono figlia di un friulano. A casa si parlava in dialetto, perché mia madre era bisiaca, ma mio padre e mia nonna si esprimevano in friulano. Non l’ho mai parlato fluentemente, ma l’ho sempre capito. È rimasto dentro di me come un basso continuo, una radice che non si vede, ma che tiene in piedi la pianta.
Il friulano non è una lingua unitaria. Cambia da valle a valle, da borgo a borgo. Ma è proprio questa varietà a renderlo vivo. E proprio per questo non si può immaginare una sua “difesa” senza legarla a un discorso più ampio: quello del plurilinguismo come bene comune, come chiave per leggere il territorio.
A Gorizia, troppo spesso, la pluralità linguistica è stata vista come un problema, come un impiccio. Come qualcosa da regolare, da ridurre, da semplificare. E invece è una risorsa, un dono. Non una ferita, ma una possibilità.
Valorizzare il friulano – come invita a fare Stolfo – non significa sottrarre spazio ad altre lingue. Significa costruire un territorio capace di riconoscere la sua identità complessa. Un’identità che non si incasella in una lingua sola, ma si riconosce nel passaggio fluido da una all’altra. Nella voce di un nonno, nei giochi dei bambini a scuola, in una canzone che non si traduce perché altrimenti perde sapore.
Il dialetto goriziano, ad esempio, non è friulano, né triestino. È una lingua a sé, con radici venete, inflessioni slovene, e tracce del tedesco austro-ungarico. Lo si riconosce nella cadenza, in certe parole che esistono solo qui. Eppure, nessuno lo insegna. Nessuno lo protegge. Nessuno lo considera “lingua”. E invece, lo è. Come lo è ogni lingua che nasce da una comunità viva.
Nel suo articolo, Stolfo ci ricorda che la tutela linguistica non è solo una questione culturale, ma politica. Perché la lingua è appartenenza, è memoria, è visione del mondo. E se non la riconosci, se la lasci spegnere, perdi una parte di te. La lingua batte dove il Friuli duole. Ma può anche curare. Può aprire, includere, guarire. A patto di darle spazio, e rispetto.
Gorizia, che è vissuta troppo a lungo sul filo della frontiera, oggi può scegliere di vivere nel centro della pluralità. Non più città ferita dalle lingue, ma città che parla con più voci. E le ascolta tutte.
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