Osimo. La ferita, la strada e il confine che non c’è più

Per chi vive a Gorizia, certi nomi non suonano come altrove. Osimo, ad esempio. In molti la ricordano come una parola amara, il simbolo di una resa firmata lontano, quasi di nascosto. Per Trieste, fu la fine di un sogno nazionale. Per Gorizia, la cicatrice aperta nel fianco del Sabotino. Ma anche – col tempo – un varco.

Gli Accordi di Osimo vennero firmati il 10 novembre 1975, in una villa privata delle Marche. Niente Palazzi romani, niente comunicazioni ufficiali. Nessuna preparazione dell’opinione pubblica. Solo una firma, all’apparenza tecnica, che in realtà cambiava molte cose. Si trattava di due documenti: un Trattato che definiva definitivamente i confini tra Italia e Jugoslavia, e un Accordo per la cooperazione economica. Ma dietro la forma si nascondeva la sostanza: l’Italia rinunciava ufficialmente alla Zona B dell’ex Territorio Libero di Trieste. Una parte d’Istria che, fino ad allora, era amministrata dalla Jugoslavia ma senza un riconoscimento formale di sovranità.

Il Memorandum di Londra del 1954, infatti, aveva congelato la questione, lasciando aperta una speranza: che quell’amministrazione fosse solo temporanea. Gli esuli istriani ci avevano creduto. Anche lo Stato italiano, almeno in apparenza. Ma Osimo cambiò tutto. In silenzio, si chiudeva una pagina di storia. «Una dolorosa rinuncia», la chiamò Aldo Moro. Per altri, una vergogna, un tradimento.

Come racconta lo storico Roberto Spazzali, fu la realpolitik a prevalere: in piena Guerra Fredda, con gli USA ancora scossi dal Vietnam e dal Watergate, Tito – leader comunista ma non allineato al Patto di Varsavia – doveva essere “accompagnato” verso l’Occidente. Roma, in cambio della stabilità, cedette. Senza chiedere molto, forse nulla. Né risarcimenti adeguati agli esuli, né garanzie sulle infrastrutture che avrebbero potuto aiutare Trieste a superare la crisi industriale. Anzi, Capodistria divenne la nuova stella portuale. E le tutele alle minoranze, previste dal Memorandum, vennero spazzate via.

Ma a Gorizia, accanto alla ferita, ci fu anche un cambiamento fisico. Una strada. L’articolo 9 degli Accordi prevedeva espressamente la costruzione di un collegamento diretto tra il Collio sloveno e la valle dell’Isonzo, allora divisi da confini rigidi e orari doganali che spezzavano la vita quotidiana. Fino a quel momento, per raggiungere Nova Gorica bisognava allungare il percorso fino a Plava. Il nuovo tracciato, elaborato da una commissione mista italo-jugoslava e finanziato da entrambi i Paesi, venne costruito proprio lungo il versante del Sabotino. Nel 1978, l’Italia stanziò oltre un miliardo e mezzo di lire per il suo tratto. Una strada che divenne presto qualcosa di più: un simbolo di continuità, uno squarcio nel confine, una finestra da cui guardare l’altro.

Certo, ci vollero anni perché le due città – Nova Gorica e Gorizia – si riconoscessero parte di uno stesso destino. Eppure quella strada, nata da un accordo controverso, oggi è percorsa da chi lavora, da chi va in bici, da chi ha dimenticato, o forse elaborato, quella pagina di storia.

Oggi Nova Gorica e Gorizia sono Capitale Europea della Cultura 2025. E proprio lì, sulla linea che un tempo separava, si costruisce una nuova narrazione comune. Palcoscenici condivisi, eventi transfrontalieri, piazze ibride, installazioni che sfumano i bordi. Un’occasione per ripensare la storia e riconoscere che l’Europa vera nasce dove si imparano a vivere i margini. Dove ogni ferita può diventare soglia. E anche un trattato iniquo può, col tempo, diventare le fondamenta di un ponte.

Un approfondimento o, meglio ancora, un punto di vista è disponibile in questa pagina.

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