Peteano, 31 maggio 1972: la strage, gli innocenti dimenticati e gli avvocati che li difesero

Ci sono storie che vengono raccontate sempre nello stesso modo. A ogni anniversario dell’attentato di Peteano, i giornali ricordano i tre giovani carabinieri uccisi – Donato Poveromo, Franco Dongiovanni e Antonio Ferraro – e l’inchiesta che anni dopo portò alla verità, grazie al giudice Felice Casson. Tutto giusto. Ma incompleto. Perché in quella storia ci sono anche altri nomi. Ragazzi accusati ingiustamente, travolti da un depistaggio feroce, lasciati soli in pasto all’opinione pubblica. E ci sono avvocati coraggiosi che, in un clima ostile, hanno scelto di difendere non solo delle persone, ma un principio: quello di giustizia.
Io quei ragazzi li conoscevo. Erano miei coetanei, alcuni anche amici. Ricordo bene Furio Larocca, Giorgio Budicin, Romano Resen, Ezio Badin, i fratelli Mezzorana. Nomi che la storia ufficiale ha lasciato sullo sfondo, ma che io non riesco – e non voglio – dimenticare.

Per loro, Peteano non fu solo una notizia. Fu un’ombra lunga, un’etichetta infamante, un’accusa senza prove. E, cosa ancor più vergognosa, furono presentati all’opinione pubblica come balordi, come criminali comuni, non solo come presunti terroristi.

La stampa, spesso senza alcuna verifica, li descrisse come elementi deviati, pericolosi, da isolare. Come se il sospetto fosse già una condanna. Come se il contesto – il loro essere giovani, studenti, idealisti, magari un po’ ingenui – non avesse alcun diritto di cittadinanza nel racconto ufficiale.

Fu un’operazione di delegittimazione totale: uccidere la reputazione, prima ancora della verità.

Il vero autore dell’attentato era Vincenzo Vinciguerra, esponente di Ordine Nuovo, gruppo neofascista. A collaborare con lui, Carlo Cicuttini, ex militante del MSI e poi latitante in Spagna. Ma ci vollero anni – e più processi – perché la verità venisse finalmente a galla.

Il processo contro i giovani goriziani si concluse con l’assoluzione il 7 giugno 1974, per insufficienza di prove. Ma il danno era fatto. E il dolore, per molti, non è mai passato.

A difenderli furono uomini come Roberto Maniacco, Livio Bernot ma soprattutto Nereo Battello, che si spese con tenacia e generosità nel processo, lottando contro un clima di sospetto e di rassegnazione. Nereo Battello non era solo un avvocato: era un cittadino consapevole, capace di alzare la voce quando troppi sceglievano il silenzio. La sua è una figura che meriterebbe di essere ricordata nelle scuole, nelle istituzioni, in ogni luogo in cui si insegna il significato della parola "diritti".

A Gorizia, e in tutta la provincia, quelle accuse pesavano come macigni. Chi li conosceva – amici, compagni di scuola, vicini di casa – si trovò davanti a un dilemma scomodo: difenderli o tacere. In molti tacquero. E qualcuno, ancora oggi, fatica a pronunciare quei nomi senza imbarazzo.

Eppure, sono nomi che vanno ricordati. Perché non si può raccontare Peteano a metà. Non basta dire chi ha messo la bomba. Bisogna anche dire chi è stato usato come bersaglio, chi è stato lasciato indietro, chi ha pagato per colpe altrui.

È tempo che la memoria si allarghi. Che anche Gorizia, anche le sue istituzioni, trovino il coraggio di ricordare pubblicamente questi ragazzi e i loro difensori. Con un gesto simbolico, una targa, un incontro, un’aula dedicata. Non per dividere, ma per riconoscere. Perché la giustizia non è solo nei tribunali. È anche nei nomi che decidiamo di non dimenticare.

"Naš Tito" sull’asfalto di Gorizia. Quando la storia bussa al presente

La notte tra venerdì e sabato, qualcuno ha scritto "Naš Tito" – “il nostro Tito” – sull’asfalto di una strada a Gorizia. Nulla di clamoroso, in apparenza. Una scritta fatta in fretta, forse con la vernice, destinata a scomparire sotto le ruote delle biciclette del Giro d’Italia che proprio sabato avrebbe attraversato la città. Eppure, quel gesto ha suscitato reazioni. Alcuni lo hanno letto come una provocazione, altri come un atto identitario, altri ancora come un messaggio nostalgico. Ma a Gorizia – città che vive da sempre all’incrocio di frontiere, guerre, esodi e riconciliazioni – nessuna scritta è mai solo una scritta.

“Naš Tito” non è un semplice omaggio a un leader del passato. È una frase che riapre una faglia profonda nella memoria collettiva, una di quelle crepe che né il tempo né la retorica riescono a colmare. E il fatto che sia comparsa proprio dove stava per passare il Giro, simbolo popolare e condiviso dell’Italia contemporanea, ha reso il contrasto ancora più visibile. Quasi a voler ricordare che, mentre il presente corre, il passato resta lì, sotto le ruote, ancora pronto a emergere.

A Gorizia, quella scritta non è neutra. Evoca memorie spezzate, racconti contrastanti, ferite ancora aperte. Tito è stato un eroe della resistenza per i popoli jugoslavi, un simbolo di libertà dal nazifascismo. Ma per tanti italiani dell’Istria, di Fiume, di Zara – e anche di Gorizia – è stato il volto dell’esodo, delle foibe, dell’imposizione ideologica.

La scritta “Naš Tito” dialoga idealmente con quella, enorme e visibile, sul Sabotino. Lì, da decenni, campeggia “TITO” in lettere bianche, tracciate con pietre sul versante sloveno della montagna. Un messaggio rivolto a chi guarda da Gorizia, che negli anni ha suscitato stupore, fastidio, orgoglio, rancore. Ma la domanda che dovremmo porci oggi non è se Tito sia un eroe o un criminale. È troppo facile dividere il mondo in buoni e cattivi, giusti e sbagliati, dimenticando che la storia, soprattutto quella di confine, è fatta di ambiguità, zone grigie, memorie intrecciate.

La vera domanda è: come possiamo costruire una memoria condivisa senza rinunciare alla verità di nessuno?

Serve coraggio. Il coraggio di ascoltare storie diverse dalla propria. Il coraggio di ammettere che l’antifascismo non può giustificare ogni crimine. E che l’italianità non è automaticamente innocente. Il coraggio di dire, insieme: sì, c’è stata la resistenza. Ma c’è stato anche l’esodo. C’è stata la liberazione. Ma anche la repressione.

Gorizia e Nova Gorica, insieme Capitale europea della cultura 2025, hanno una grande occasione. Non per cancellare le scritte – né quelle sui muri né quelle nella memoria – ma per riscriverle insieme, aggiungendo contesto, voci, sguardi nuovi.

Non basta più dire “Tito è il nostro” o “Viva l’Italia”. È tempo di dire: questa storia è la nostra. Intera. Complessa. Condivisa.

Il Re di Spagna e Gorizia: un titolo, una scoperta

Era una di quelle sere tranquille. Ero già a letto, la TV accesa in sottofondo, e come spesso accade, scorro distrattamente Facebook sul cellulare. Tra gatti (la mia passione è Simon’s cat), ricette e notizie locali, mi imbatto in un post che mi fa sobbalzare:
«È vero che Filippo VI è anche Conte di Gorizia?»

Sorrido. Subito sotto, i soliti commenti ironici. Ma chi ha posto la domanda è persona seria, di quelle che non scrivono a caso. Così, incuriosita, ho deciso di andare a fondo.

Ebbene sì: Filippo VI di Borbone, attuale Re di Spagna, porta ancora tra i suoi titoli quello di “Conte di Gorizia”.

Non è uno scherzo. È scritto nero su bianco nella sua titolatura ufficiale (che, tra l’altro, occupa mezza pagina di Wikipedia). Il titolo fu ereditato — insieme a molti altri — dagli Asburgo, quando Leonardo, ultimo conte della dinastia goriziana, nel 1500 morì senza eredi e consegnò la contea all’imperatore Massimiliano I. Da lì, la lunga trafila:
Massimiliano → Filippo il Bello → Carlo V → Filippo II → Monarchia spagnola.

Così, mentre Gorizia diventava un punto sperduto nella geografia asburgica, il suo nome saliva silenziosamente nel firmamento dei titoli regali. E da oltre cinque secoli, vive sospeso come reliquia araldica in capo ai sovrani spagnoli.

Ora, la domanda è: il Re ne è davvero consapevole? Perché se è nella pagina ufficiale di Wikipedia, dubito che alla Zarzuela nessuno se ne sia accorto.

Un invito (quasi) ufficiale. A questo punto, un modesto suggerimento per l’Amministrazione comunale: visto che ci troviamo in questo evento celebrativo GO! 2025 – Capitale europea della cultura, perché non cogliere l’occasione per invitare ufficialmente Filippo VI all’inaugurazione dell’ascensore per il castello (come qualcunio ha suggerito nei commenti al post su Facebook)?

Sarebbe un evento perfetto, dal forte valore simbolico: un Conte di Gorizia che ritorna nel suo antico feudo, salendo – con grande dignità regale – al maniero che fu dei suoi (molto) lontani predecessori. Non per rivendicare diritti, ovviamente, ma per riconoscere – finalmente – il ruolo storico e culturale che la Contea di Gorizia ha avuto in Europa.

Un’occasione d’oro per dare visibilità internazionale alla città, rinsaldare legami nobiliari (almeno simbolici) e – perché no – scambiare un brindisi tra Rioja e Collio, come si conviene tra famiglie storiche.

Io intanto chiudo il cellulare.
Ma non senza una punta di soddisfazione:
alla sera, a Gorizia, può succedere anche questo.

 

Tra memoria e intrattenimento

Il monumento dimenticato: dico la mia.

Ci sono scelte amministrative che, pur animate dalle migliori intenzioni, finiscono per generare smarrimento. È il caso del recente posizionamento delle giostre primaverili nell’area adiacente il monumento al Fante d’Italia, in via Cadorna a Gorizia.

Un luogo tutt’altro che neutro, che racconta con la sua pietra e il bronzo il sacrificio dei soldati italiani nella conquista di Gorizia durante la Prima Guerra Mondiale. Il monumento, inaugurato nel 1966 in occasione del cinquantenario dell’evento, è copia dell’opera dello scultore Angelo Balzardi realizzata a Torino, e porta incise le parole e i nomi di chi ha combattuto “per l’Italia”.

Eppure oggi, accanto a quelle iscrizioni solenni, risuonano le musiche delle giostre e il vociare allegro dei bambini. Una vicinanza che può apparire stonata, non per difetto di gioia, ma per eccesso di dimenticanza.

Mentre si propone in sede parlamentare l’iscrizione della scritta “Viva l’Italia” sul Monte Sabotino – iniziativa certo discutibile per tempismo e portata simbolica in un’area che sta celebrando la Capitale Europea della Cultura 2025 – si finisce per ignorare il significato profondo di un luogo come quello di via Cadorna. Non basta dichiararsi eredi della memoria: bisogna anche custodirla nei gesti concreti.

Per questo ho deciso di scrivere una lettera al Sindaco, che pubblico qui di seguito. Non è polemica, ma un invito a riflettere. Perché i luoghi parlano. E a volte, basta ascoltarli.

Lettera al Sindaco

Oggetto: Perplessità sul posizionamento delle giostre presso il monumento al Fante d’Italia

Egregio Signor Sindaco,

Le scrivo in qualità di cittadina profondamente legata alla storia e all’identità di Gorizia, per esprimere una sincera perplessità riguardo alla recente decisione di collocare un’area ludica con giostre a ridosso del monumento al Fante d’Italia.

In un tempo in cui si cerca, anche attraverso proposte legislative, di riaffermare segni identitari come la scritta “Viva l’Italia” sul Monte Sabotino — iniziativa che, pur riconoscendone l’intento simbolico, può risultare anacronistica alla luce della vocazione transfrontaliera della nostra città — sorprende vedere come, contestualmente, si finisca per banalizzare un luogo della memoria.

Il monumento al Fante d’Italia è stato eretto per ricordare il sacrificio dei soldati italiani nella conquista di Gorizia. Si tratta di uno spazio che dovrebbe invitare alla riflessione e al rispetto, non di un semplice slargo da riempire con attrazioni temporanee.

Pur comprendendo l’esigenza di creare occasioni di socialità e svago per le famiglie, ritengo che esistano altre aree più consone a ospitare strutture ludiche, senza sovrapporre in modo così dissonante memoria storica e intrattenimento.

Mi auguro che l’Amministrazione voglia riconsiderare questa scelta, o quanto meno aprire un confronto pubblico che restituisca dignità al valore dei nostri luoghi simbolici, in un momento in cui Gorizia si racconta al mondo come Capitale Europea della Cultura.

Primavera sul Collio. L’emozione bianca di acacie e sambuco

Ci sono giorni in cui il Collio ti chiama. Non con la voce, ma con un profumo: dolce, delicato, penetrante. È il bianco delle acacie in fiore che si apre come una nuvola sopra le colline, insieme al sambuco, che punteggia i margini dei sentieri e delle strade con i suoi ombrellini leggeri. In quei giorni, chi può — a piedi, in bici o in macchina — risponde a quel richiamo, cercando un contatto diretto con la bellezza.

Per chi ama camminare, basta lasciare l’auto a bordo strada, in uno dei tanti punti panoramici poco fuori Gorizia. Da Lucinico, ad esempio, si può proseguire tra i vigneti e i filari ancora timidi, accompagnati dal cinguettio e da quella luce che solo maggio sa offrire. Ogni curva svela un angolo nuovo, ogni respiro è intriso di natura.

Chi ha una bicicletta — e un po’ di gamba — può salire lungo le stradine che collegano frazioni e paesi, fino a Cormòns o Dolegna, con soste lente tra le borgate e le osmize aperte per la stagione. È un viaggio fatto non di chilometri, ma di dettagli: la vista che si allunga fino alle Prealpi Giulie, il canto di un fringuello, la carezza del vento sulla pelle.

E per chi non può o non vuole camminare, il giro in macchina è tutt’altro che una rinuncia. Anzi. Con i finestrini abbassati e il tempo di fermarsi quando si vuole, l’esperienza può essere altrettanto intensa. Si attraversano le strade fiancheggiate da acacie in fiore, vere gallerie vegetali bianchissime e profumate, e si ammirano i paesi adagiati tra le vigne come isole in un mare verde.

In qualunque modo si scelga di vivere il Collio in questo periodo, una cosa è certa: l’emozione del bianco che fiorisce ovunque — tenero, diffuso, luminoso — è impagabile. È una carezza all’anima. E ogni anno, quando ritorna, ci ricorda che la bellezza non ha bisogno di grandi cose. Solo di essere vista, respirata, custodita.

Barbana fuori stagione: Un angolo di silenzio nella laguna di Grado

"Ho fatto scalo a Grado la domenica di Pasqua..." Così inizia una delle canzoni più suggestive di Franco Battiato, e in quelle parole c’è già tutta l’atmosfera di un luogo sospeso tra spiritualità e silenzio, tra acqua e cielo. Forse è per questo che ho sentito il desiderio di tornarci, in una giornata fresca e parzialmente coperta, quando la luce si diffonde come un velo sulla laguna.

Amo andare a Grado fuori stagione. Lontana dalla calca che si trova d’estate, la città restituisce tutta la sua essenza: quella di un luogo raccolto, elegante, sospeso tra mare e storia. È proprio in quei momenti che si riesce ad ascoltare davvero il respiro lento della laguna.

Questa volta ho scelto di salire sul traghetto e proseguire verso Barbana, l’isoletta a pochi minuti da Grado. Piccola, ma carica di storia e significato. All’arrivo, si viene accolti dal profilo del santuario e da un silenzio che invita alla sosta, più che alla visita.

Secondo la tradizione, Barbana è un luogo di devozione mariana fin dal VI secolo, quando un’immagine sacra fu ritrovata tra i detriti di una piena. Da allora, è diventata meta di pellegrinaggi e cuore spirituale della laguna, soprattutto in occasione del "Perdon de Barbana". Appena entrati nel santuario, sia a destra che a sinistra, colpisce la presenza di numerosi ex voto: piccoli oggetti, fotografie, tavolette dipinte, testimonianze di fede semplice e profonda. Alcuni risalgono addirittura alla fine dell’Ottocento e raccontano storie silenziose di grazie ricevute, paure superate, preghiere sussurrate tra le braccia della Madonna.

Ma l’isola offre anche un’altra forma di accoglienza: quella conviviale. Proprio accanto al santuario, infatti, c’è un ristorante semplice, gestito dalla Compagnia di trasporto, dove si può gustare dell’ottimo pesce. Freschissimo, cucinato con garbo, servito senza fretta. Un pranzo che non è solo un pasto, ma parte della giornata: parte del rito.

Mentre tornavo a Grado, circondata da acqua e pensieri, mi sono chiesta: chissà se Battiato è stato anche qui, a Barbana? Forse sì. O forse non importa. Perché chi ha scritto quelle parole aveva comunque colto l’essenza di questo luogo: un angolo dove si resta, anche solo per qualche ora, un po’ più in ascolto del mondo.

Dal mare ai monti in meno di un’ora – Il segreto di Gorizia

 

Oggi, mentre percorrevo via Duca d’Aosta, fiancheggiata dai grandi manifesti che annunciano i prossimi eventi culturali, mi sono fermata a riflettere: va bene, Nova Gorica/Gorizia Capitale europea della cultura… ma al di là di questo riconoscimento, cosa potrebbe davvero spingere un turista a venire qui?

Per me, la risposta è chiara: perché qui il paesaggio non è solo uno sfondo, ma un’esperienza viva.
Gorizia è una città di confine – e non solo in senso geografico. È un punto d’incontro tra culture, lingue, memorie e storie che altrove restano separate. Ma soprattutto, è immersa in un contesto territoriale che non ha eguali in Europa.

In meno di un’ora, da qui si può raggiungere il mare, la montagna, un lago.
Bastano pochi chilometri per ritrovarsi a passeggiare lungo le spiagge di Grado, Sistiana o Monfalcone, dove di recente sono stati completati interessanti interventi di riqualificazione. Oppure per respirare l’aria balsamica della Selva di Tarnova, o ancora per contemplare le acque verdi e tranquille del lago di Santa Lucia, in Slovenia.
E nel mezzo? Colline dolci, pettinate dai vigneti del Collio, borghi in cui il tempo sembra essersi fermato, osmize dove gustare un bicchiere di vino e qualche fetta di salame tagliato a mano.

Chi arriva a Gorizia oggi, magari attirato dagli eventi di GO! 2025, scopre molto più di una città in festa. Scopre una terra-pontile, dove ogni passo porta verso un altrove prossimo: un museo, una cantina, una trincea della Grande Guerra (imperdibili le gallerie del Brestovec), un castello medievale, un sentiero immerso nella boscaglia.

E se ci si ferma davvero – non solo per una sosta, ma per ascoltare – si percepisce una vibrazione sottile, fatta di stratificazioni e sussurri, di passato che ancora parla, e di futuro che (forse) qui si può scrivere di nuovo, insieme.

Allora sì, ben venga la Capitale europea della cultura. Ma a Gorizia si viene anche per sentirsi parte di qualcosa che sfugge alle guide turistiche: un’Europa vera, quotidiana, vissuta.
Una meta da scoprire con lentezza. E magari, anche da amare.

Piccola guida lenta a Gorizia e dintorni – Cosa vedere in una giornata

Mattina – La città tra le frontiere

  • Inizia dalla Piazza della Transalpina, dove il confine tagliava in due il selciato: oggi è il cuore simbolico della capitale culturale transfrontaliera.
  • Visita il Castello di Gorizia, con la vista che abbraccia tutta la città e i colli.
  • Prosegui nel Borgo Castello, tra vicoli e musei (imperdibili quello della Grande Guerra e quello della moda).

Pranzo – Una sosta con sapore locale

  • Fermati in una trattoria tipica, dove assaggiare piatti come la jota, il frico o gli gnocchi di susine, accompagnati da un calice di vino del Collio.

Pomeriggio – Un salto oltreconfine o in mezzo al verde

  • Attraversa a piedi o in bici il confine e passeggia tra i viali alberati di Nova Gorica. Puoi salire al Monastero di Kostanjevica, dove riposa l’ultimo re di Francia.
  • Oppure, scegli la natura: un’escursione leggera per raggiungere le gallerie del Brestovec o il percorso delle panchine gialle a Oslavia per celebrare il magico vitigno della Ribolla.

Sera – Vino, luci e silenzi

  • Rientra a Gorizia per una cena lenta in centro, oppure goditi il tramonto dai colli tra San Floriano e Oslavia, con vista sui vigneti.

 

Per saperne di più: https://letsgo.gorizia.it/it/percorsi/ oppure accedi direttamente dal QR code

Via San Gabriele: giochi d’infanzia al confine

In primavera, via San Gabriele si colora di rosa. I pruni selvatici che oggi fiancheggiano la strada sbocciano in una nuvola di fiori leggeri, trasformando questo angolo di Gorizia in un sentiero quasi incantato. Sono belli, sì, ma non riescono a risvegliare in me i ricordi dell’infanzia. Quei ricordi tornano piuttosto quando percorro viale XX Settembre, ancora oggi delimitato da possenti ippocastani, o via Udine a Lucinico, dove l’ombra degli alberi e la luce che filtra tra le foglie sembrano riaprire un varco nel tempo. È l’albero che resuscita la memoria, che la richiama con il fruscio discreto delle fronde e l’odore della terra antica.

Io in via San Gabriele ci sono vissuta fino al 1961. Allora la strada era priva di traffico veicolare, non solo perché i tempi erano altri, ma anche perché il confine l’aveva chiusa a pochi passi da casa. Quell’interruzione fisica che oggi può sembrare una limitazione, per noi bambini fu una fortuna. La strada era tutta nostra: nessuna macchina, nessun pericolo, solo spazio per l’immaginazione e per il gioco.

I grandi ippocastani che la ombreggiavano – possenti, regali, ormai scomparsi – erano le nostre colonne d’Ercole. Ci nascondevamo dietro i loro tronchi larghi e rassicuranti quando giocavamo a nascondino, e a volte ci bastava stare immobili qualche secondo per sentire il cuore che batteva di emozione, in attesa di essere scoperti. C’erano anche altri giochi: campanon, disegnato a gessetto direttamente sull’asfalto, con le caselle numerate che ci guidavano in salti precisi e pieni di regole; o ancora palla avvelenata, corse a perdifiato, e lunghe chiacchierate seduti sul bordo del marciapiede, dove ci raccontavamo storie di morti e di fantasmi che ci terrorizzavano tantissimo, ma ce le raccontavamo ugualmente, come se il brivido fosse parte necessaria del gioco.

Oggi via San Gabriele è diventata una strada di scorrimento, utilizzata da chi entra o esce dalla città verso Nova Gorica. Gli ippocastani non ci sono più, le voci si sono fatte silenziose, il tempo ha steso un velo sottile tra quel passato e l’oggi. Ma il mio ricordo è ancora là, nitido, radicato come quegli alberi che non ci sono più.

E ogni tanto, basta un soffio di vento tra i rami di viale XX Settembre o un passaggio lento lungo via Udine a Lucinico, per rivedere, per un attimo, una bambina con il gessetto in mano e le scarpe sporche di polvere, pronta a inventare ancora una volta il mondo.