Per loro, Peteano non fu solo una notizia. Fu un’ombra lunga, un’etichetta infamante, un’accusa senza prove. E, cosa ancor più vergognosa, furono presentati all’opinione pubblica come balordi, come criminali comuni, non solo come presunti terroristi.
La stampa, spesso senza alcuna verifica, li descrisse come elementi deviati, pericolosi, da isolare. Come se il sospetto fosse già una condanna. Come se il contesto – il loro essere giovani, studenti, idealisti, magari un po’ ingenui – non avesse alcun diritto di cittadinanza nel racconto ufficiale.
Fu un’operazione di delegittimazione totale: uccidere la reputazione, prima ancora della verità.
Il vero autore dell’attentato era Vincenzo Vinciguerra, esponente di Ordine Nuovo, gruppo neofascista. A collaborare con lui, Carlo Cicuttini, ex militante del MSI e poi latitante in Spagna. Ma ci vollero anni – e più processi – perché la verità venisse finalmente a galla.
Il processo contro i giovani goriziani si concluse con l’assoluzione il 7 giugno 1974, per insufficienza di prove. Ma il danno era fatto. E il dolore, per molti, non è mai passato.
A difenderli furono uomini come Roberto Maniacco, Livio Bernot ma soprattutto Nereo Battello, che si spese con tenacia e generosità nel processo, lottando contro un clima di sospetto e di rassegnazione. Nereo Battello non era solo un avvocato: era un cittadino consapevole, capace di alzare la voce quando troppi sceglievano il silenzio. La sua è una figura che meriterebbe di essere ricordata nelle scuole, nelle istituzioni, in ogni luogo in cui si insegna il significato della parola "diritti".
A Gorizia, e in tutta la provincia, quelle accuse pesavano come macigni. Chi li conosceva – amici, compagni di scuola, vicini di casa – si trovò davanti a un dilemma scomodo: difenderli o tacere. In molti tacquero. E qualcuno, ancora oggi, fatica a pronunciare quei nomi senza imbarazzo.
Eppure, sono nomi che vanno ricordati. Perché non si può raccontare Peteano a metà. Non basta dire chi ha messo la bomba. Bisogna anche dire chi è stato usato come bersaglio, chi è stato lasciato indietro, chi ha pagato per colpe altrui.
È tempo che la memoria si allarghi. Che anche Gorizia, anche le sue istituzioni, trovino il coraggio di ricordare pubblicamente questi ragazzi e i loro difensori. Con un gesto simbolico, una targa, un incontro, un’aula dedicata. Non per dividere, ma per riconoscere. Perché la giustizia non è solo nei tribunali. È anche nei nomi che decidiamo di non dimenticare.