Io in via San Gabriele ci sono vissuta fino al 1961. Allora la strada era priva di traffico veicolare, non solo perché i tempi erano altri, ma anche perché il confine l’aveva chiusa a pochi passi da casa. Quell’interruzione fisica che oggi può sembrare una limitazione, per noi bambini fu una fortuna. La strada era tutta nostra: nessuna macchina, nessun pericolo, solo spazio per l’immaginazione e per il gioco.
I grandi ippocastani che la ombreggiavano – possenti, regali, ormai scomparsi – erano le nostre colonne d’Ercole. Ci nascondevamo dietro i loro tronchi larghi e rassicuranti quando giocavamo a nascondino, e a volte ci bastava stare immobili qualche secondo per sentire il cuore che batteva di emozione, in attesa di essere scoperti. C’erano anche altri giochi: campanon, disegnato a gessetto direttamente sull’asfalto, con le caselle numerate che ci guidavano in salti precisi e pieni di regole; o ancora palla avvelenata, corse a perdifiato, e lunghe chiacchierate seduti sul bordo del marciapiede, dove ci raccontavamo storie di morti e di fantasmi che ci terrorizzavano tantissimo, ma ce le raccontavamo ugualmente, come se il brivido fosse parte necessaria del gioco.
Oggi via San Gabriele è diventata una strada di scorrimento, utilizzata da chi entra o esce dalla città verso Nova Gorica. Gli ippocastani non ci sono più, le voci si sono fatte silenziose, il tempo ha steso un velo sottile tra quel passato e l’oggi. Ma il mio ricordo è ancora là, nitido, radicato come quegli alberi che non ci sono più.
E ogni tanto, basta un soffio di vento tra i rami di viale XX Settembre o un passaggio lento lungo via Udine a Lucinico, per rivedere, per un attimo, una bambina con il gessetto in mano e le scarpe sporche di polvere, pronta a inventare ancora una volta il mondo.
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