Erbe spontanee. La passione vien mangiando

 

La primavera in Friuli Venezia Giulia regala una meravigliosa avventura tra sapori autentici e natura rigogliosa. Dai monti al Carso, passando per prati, fiumi e lagune, ogni luogo offre erbe spontanee uniche, protagoniste di piatti tradizionali e nuove creazioni gastronomiche. Bruscandoli, sclòpit, asparagi selvatici, aglio orsino, tarassaco e molte altre piante sono pronte per essere raccolte, trasformando una semplice passeggiata in un’esperienza gustosa e coinvolgente. Insomma, basta prendere il cestino e ..... andare!

Ogni anno, con l'arrivo della primavera, cresce la mia impazienza di tornare nei boschi vicino a casa per raccogliere i germogli teneri del pungitopo. Questa passione non è nata subito. Infatti, quand' ero bambina non li conoscevo neppure. A quei tempi si andava a bruscandoli! Non conoscevo molte erbe spontanee, a parte il tarassaco—detto anche cicoria selvatica o dente di leone—quella pianta quasi invadente che in primavera riempie il giardino di fiori gialli e che poi, grazie ai suoi soffioni leggeri, sparge i semi ovunque.

Non ricordo quando, per la prima volta ho scoperto il pungitopo, quella pianta che a Natale si usa per decorare la casa perchè le sue bacche rosse fanno molta atmosfera. Sta di fatto che ormai è una passione che si rinnova ogni Primavera, diventando un piccolo rito personale. Adoro i germogli cucinati in ogni modo: in una soffice frittata, saltati nelle uova strapazzate o protagonisti di un delizioso risotto. Per fortuna, questa pianta non è molto nota, quindi posso raccoglierne senza il timore di rimanere a mani vuote. L'unico inconveniente sono le zecche, sempre in agguato tra le foglie umide, ma con un po' di attenzione il piacere di questa attività prevale decisamente sul rischio.

La raccolta e l’utilizzo delle erbe spontanee in cucina hanno origini antichissime, risalenti addirittura alla preistoria, quando l'uomo imparò per necessità a riconoscere le piante commestibili da quelle tossiche. Nel tempo, soprattutto nelle campagne del Goriziano, si è tramandata questa preziosa conoscenza, integrandola stabilmente nella cultura gastronomica locale. Durante periodi di scarsità alimentare, le erbe selvatiche diventarono risorsa fondamentale, simbolo di resilienza e creatività culinaria. Oggi questa tradizione rivive una nuova popolarità, apprezzata sia da chef stellati che dagli appassionati di cucina casalinga.

Tra le numerose erbe spontanee che possiamo raccogliere nella zona del Goriziano ci sono, oltre al pungitopo, il bruscandolo (luppolo selvatico), perfetto per realizzare uno squisito risotto dal gusto delicatamente amarognolo. Basta soffriggere una cipolla, aggiungere i bruscandoli spezzettati, tostare il riso, sfumare con vino bianco e portare a cottura con brodo caldo, mantecando poi con burro e parmigiano.

Anche l’aglio orsino è una delizia tipica delle nostre zone boschive. Si raccoglie facilmente per preparare un pesto profumato frullando le foglie con pinoli, parmigiano e olio extravergine, ideale per condire pasta fresca o crostini caldi.

Infine, non può mancare la frittata di pungitopo: sbollenta velocemente i germogli, saltali in padella con olio e aglio, aggiungi uova sbattute, sale e pepe, e cuoci a fuoco dolce per ottenere una pietanza saporita e genuina.

Andare a caccia di erbe spontanee è un modo per vivere pienamente il territorio, riscoprendo sapori autentici che ci riconnettono alla nostra storia e alla natura che ci circonda. 

Peraltro, i limiti regionali imposti per la raccolta delle erbe spontanee fanno quasi sorridere, considerando che è praticamente impossibile per una persona raccoglierne una quantità anche solo vicina a quella stabilita dalla Regione.


La Crisi del Commercio a Gorizia: Sfide e Proposte di Rilancio

Gorizia sta vivendo una crisi del commercio di vicinato che si riflette nel progressivo svuotamento del suo centro storico. Secondo un'analisi dell'Istituto Tagliacarne, centro studi delle Camere di commercio, pubblicata da Confcommercio e riportata sulla stampa nazionale nei giorni scorsi, Gorizia si colloca al secondo posto in Italia per la chiusura dei punti vendita, con una perdita che sfiora il 34,2% dal 2012 al 2024. Questo dato mette in luce un fenomeno che affligge numerose città italiane, ma che a Gorizia ha radici ancora più profonde.

Le Cause della Crisi

Alla base di questa crisi ci sono diversi fattori, alcuni dei quali legati a scelte politiche e cambiamenti economici. L'espansione della grande distribuzione è uno dei principali fattori che ha messo in difficoltà le botteghe. Con l'apertura di grandi centri commerciali e supermercati, i negozi locali (i cosiddetti negozi di vicinato) non sono riusciti a competere, soprattutto per quanto riguarda i prezzi e la varietà dei prodotti. Questo fenomeno è stato accompagnato dalla fine dei piani del commercio, che fino agli anni '90 attribuivano ai comuni la responsabilità di regolare l’offerta e la domanda commerciale sul proprio territorio. La fine di questi piani ha lasciato le città senza strumenti efficaci per bilanciare i diversi tipi di commercio, favorendo la crescita dei grandi centri a scapito delle piccole attività locali.

Peraltro, in Friuli Venezia Giulia, l'apertura di grandi strutture di vendita è stata agevolata da un'interpretazione estensiva delle disposizioni normative introdotte all’inizio degli anni 2000, che ha permesso una rapida espansione di queste strutture. Questa interpretazione ha portato la regione ai vertici nazionali per il rapporto superficie commerciale per abitante, favorendo una concentrazione di grandi centri commerciali che ha messo in difficoltà il commercio di vicinato, creando una competizione sproporzionata rispetto alla dimensione del mercato locale.

A Gorizia, questo fenomeno si è intrecciato con altre problematiche. La dissoluzione dell’ex Jugoslavia e l’apertura dei mercati in Slovenia hanno tolto alla città una parte importante dei suoi consumatori. Gli abitanti delle valli del Vipacco e dell'Isonzo, che prima costituivano una clientela fedele per i negozi goriziani, hanno ora accesso a mercati sloveni ben strutturati, con conseguente riduzione del flusso di consumatori in città. Inoltre, la dismissione delle caserme, che ha portato via migliaia di residenti, ha peggiorato ulteriormente la situazione, privando il commercio di una base di consumatori stabile.

Le Proposte di Rilancio:
Nonostante la difficoltà della situazione, Gorizia ha ancora molte potenzialità da valorizzare. Con una popolazione di poco più di 30.000 abitanti, è evidente che la creazione di una rete commerciale deve passare inevitabilmente attraverso il rilancio del turismo. Solo un flusso turistico regolare e qualificato può garantire una domanda costante per il commercio di vicinato.

Ecco alcune proposte concrete per il rilancio del commercio e del centro cittadino:

1. Valorizzare il turismo esperienziale e il commercio di nicchia

Gorizia potrebbe puntare sul turismo esperienziale, che si distingue dal turismo tradizionale per il suo focus sulle esperienze autentiche. La città ha un patrimonio storico e culturale ricco che potrebbe essere utilizzato per creare workshop, tour tematici e eventi gastronomici che attirano turisti in cerca di esperienze uniche. Allo stesso tempo, il commercio di nicchia, focalizzato su prodotti tipici e artigianato locale, potrebbe rispondere a una domanda crescente di qualità e autenticità, differenziandosi dalla grande distribuzione.

Una delle tradizioni gastronomiche più radicate a Gorizia è la “frittata con le erbe", che si prepara con le erbette spontanee che crescono nella zona. Da sempre, da primavera fino alla fine dell'estate, questa frittata è un piatto tipico, amato dai goriziani. I più anziani ricorderanno sicuramente l'osteria a San Mauro, al buso del Diau, a pochi passi dal confine, dove si consumava questa prelibatezza, preparata con le erbe fresche raccolte nei campi e nei boschetti circostanti. Ancora oggi, le erbette per la frittata vengono vendute al mercato di via Boccaccio, testimoniando una tradizione gastronomica che continua a vivere nel cuore della città. La valorizzazione di questi prodotti locali, come già si sta facendo con il radicchio "La rosa di Gorizia" e le erbe spontanee, dimostrerebbe che è possibile promuovere le eccellenze del territorio e attrarre visitatori interessati a esperienze culinarie autentiche. Gorizia potrebbe costruire un'offerta turistica che combini tradizione gastronomica e commercio di nicchia, puntando sulle erbe locali come il bruscandolo, l’asparago selvatico, il germoglio di pungitopo e l’aglio ursino, ottime da utilizzare in cucina e perfette per eventi gastronomici.

Proposta concreta:

Creare pacchetti turistici che includano esperienze culinarie legate ai prodotti ed alle erbe locali, come la frittata o il risotto con le "erbe". Le cene che vengono proposte dai ristoranti locali per promuovere e valorizzare la rosa di Gorizia possono essere riproposte durante tutto l’anno con i diversi prodotti agricoli che il territorio offre: dall’asparago di Sant’Andrea alla verza, ma anche la frutta. Nel territorio, infatti, sono coltivate ottime ciliegie e pesche, senza dimenticare noci e cachi, per i quali l’attuale strumento urbanistico ne prevede anche la tutela. Inoltre, piatti tipicamente locali, come lo struccolo cotto in straza, che sono noti solo ai residenti, potrebbero essere riscoperti e valorizzati.

2. Valorizzazione del Vino

Nonostante il Collio sia una delle zone vinicole più rinomate d'Italia, Gorizia non ha ancora saputo valorizzare appieno la sua ricchezza vinicola. Sebbene la produzione di vino rappresenti una delle maggiori risorse economiche e culturali del territorio, le iniziative per promuovere il vino del Collio sono state finora limitate e sporadiche. Le uniche manifestazioni degne di nota risalgono agli inizi degli anni 2000, quando furono organizzate alcune edizioni della rassegna Calici di Stelle, ma da allora non si è assistito a un vero e proprio rilancio o a una strategia di marketing efficace. Il vino del Collio, con le sue denominazioni di origine e i suoi vini bianchi pregiati come il Friulano e la Ribolla Gialla, rappresenta un’opportunità unica per Gorizia, non solo come prodotto da esportazione ma come autentico simbolo del territorio. Una valorizzazione più incisiva, attraverso eventi, promozioni e collaborazioni con i produttori locali, potrebbe elevare il vino a protagonista indiscusso della scena turistica e commerciale della città, facendo di Gorizia un punto di riferimento enogastronomico di grande prestigio. In tal senso Cormons dovrebbe essere considerata una brava maestra.

3. Agevolare finanziariamente l'apertura di nuovi punti di vendita

La creazione di una rete commerciale forte a Gorizia non può prescindere da incentivi economici per favorire l'apertura di nuovi punti vendita nel centro storico. Per sostenere il commercio di vicinato, è necessario che le istituzioni locali offrano sgravi fiscali e finanziamenti agevolati a chi desidera aprire un’attività commerciale nel centro città. Il Fondo Gorizia, sotto questo aspetto, potrebbe svolgere un ruolo fondamentale. Questo stimolerebbe l'apertura di negozi innovativi, legati alle tradizioni locali o a nuovi settori emergenti, e contribuirebbe a rivitalizzare la zona.

4. Sistemazione del Mercato Coperto di Via Boccaccio

Un altro aspetto fondamentale per il rilancio del commercio e della vita sociale nel centro di Gorizia è la sistemazione del mercato coperto di via Boccaccio. La struttura storica, quasi del tutto inutilizzata, rappresenta una grande opportunità per creare un centro di aggregazione che possa ospitare eventi enogastronomici, mercati agricoli e attività commerciali legate alla tradizione locale. Il progetto di riqualificazione del mercato, che aveva suscitato grande interesse, inclusa la proposta di collaborazione con il marchio Gambero Rosso, è rimasto fermo, deludendo le aspettative della Camera di Commercio e dei commercianti. Questo, nonostante l'approvazione di un fondo di tre milioni di euro per il suo rilancio. È essenziale che Gorizia riprenda in mano la valorizzazione di questo spazio, potenziando le sue funzionalità e facendo di esso un punto di riferimento per il commercio, il turismo e la cultura del territorio. In tal senso sarebbe interessante capire perché il Sindaco ha cambiato idea dopo le entusiastiche aperture iniziali.

La cartolina in apertura è di proprietà della Fondazione Cassa di Risparmio La cartolina in apertura

Ventotene vista da Gorizia: l’Europa al confine

In questi giorni il dibattito sul *Manifesto di Ventotene* si è riacceso, risvegliando una riflessione quanto mai attuale sul senso e sul futuro dell’Europa. Ma in questa conversazione collettiva, quasi sempre centrata nei grandi centri politici e culturali del continente, una voce manca: quella di Gorizia. Eppure, proprio Gorizia — oggi capitale europea della cultura insieme a Nova Gorica — ha tutto il diritto, e forse anche il dovere, di dire la sua.

Chi più di Gorizia ha vissuto, sulla propria pelle, le divisioni d’Europa? Chi più di questa città di confine ha conosciuto i traumi della storia, ma anche la fatica e il coraggio del ricostruire ponti là dove c’erano barriere? Il Manifesto di Ventotene, scritto nel 1941 da Altiero Spinelli, Ernesto Rossi ed Eugenio Colorni, immaginava un’Europa federale, pacifica, capace di superare i nazionalismi che avevano portato il continente alla catastrofe. Non era un’utopia astratta, ma una visione costruita tra le rovine del presente. Una visione che, oggi, Gorizia può e deve reinterpretare in chiave contemporanea.

Non si tratta di appropriarsi di un simbolo, ma di dare sostanza a quel progetto di Europa, che qui — tra Gorizia e Nova Gorica — ha preso forma concreta. Dove prima c’era un confine militarizzato, oggi c’è una piazza che unisce due città, due lingue, due memorie. Non è un caso che proprio questo spazio, Piazza Transalpina, sia diventato uno dei luoghi-simbolo di Go!2025. Ma l’Europa non si costruisce solo con l’arte e gli eventi culturali. Si costruisce con la memoria, il confronto, la capacità di pensarsi parte di qualcosa di più grande.

Per questo, Gorizia dovrebbe intervenire nel dibattito su Ventotene con la forza della sua esperienza storica e del suo presente in divenire. Un’idea potrebbe essere quella di promuovere un incontro pubblico, un seminario, o ancora meglio un convegno intitolato “Ventotene vista da Gorizia”, che raccolga studiosi, giovani, amministratori e cittadini da entrambi i lati del confine.

Un’occasione per confrontarsi non solo sul passato, ma anche sulle sfide dell’oggi: la crisi climatica, le disuguaglianze sociali, i nuovi confini della cultura digitale. Temi che richiedono, oggi come nel 1941, uno sguardo europeo, cooperativo, solidale.

In fondo, Gorizia è un laboratorio dell’Europa possibile. Non una città perfetta, ma una città che ha imparato a convivere con la propria complessità. Una città dove identità diverse si sono scontrate, ma anche incontrate. Una città che può insegnare — con umiltà, ma con forza — che non c’è futuro europeo senza memoria, senza dialogo, senza il coraggio di abbattere i muri, dentro e fuori di noi.

E allora, perché non partire proprio da qui? Perché non dire, con voce ferma e consapevole: Ventotene parla anche a noi. E noi, da Gorizia, vogliamo rispondere.

Riflessioni: la cittadinanza onoraria a Mussolini

Dico la mia a proposito della cittadinanza onoraria a Mussolini! Io credo vadano fatte, prima di tutto, alcune precisazioni. La cittadinanza onoraria viene concessa da un comune come un riconoscimento speciale a persone che si sono distinte per meriti eccezionali o per il loro legame con la città. Si tratta di un atto puramente simbolico, che non conferisce alcun diritto amministrativo o politico, ma rappresenta un'onorificenza prestigiosa e un segno di stima e gratitudine da parte della comunità locale. Per onestà intellettuale credo vada evidenziato il fatto che l’assegnazione della cittadinanza onoraria a Mussolini da parte di molti comuni italiani si inserisce in un contesto politico particolare e non rifletta, quindi, la finalità di fatto.

Dopo la Marcia su Roma e la nomina a Presidente del Consiglio, il fascismo godeva di un consenso iniziale, spesso dettato più dall’opportunismo che da una reale adesione ideologica. Molti sindaci e consigli comunali vedevano in Mussolini un uomo forte, capace di riportare ordine in un’Italia segnata dal Biennio Rosso e dalle tensioni sociali. Allo stesso tempo, il Partito Nazionale Fascista stava penetrando nelle istituzioni locali, esercitando pressioni politiche e spingendo le amministrazioni ad allinearsi al nuovo clima politico. La retorica della “Grande Italia” e la costruzione del mito dell’“Uomo della Provvidenza” rafforzavano l’idea di Mussolini come garante della stabilità nazionale. In alcune realtà, soprattutto ai confini o in zone di forte tensione identitaria, la cittadinanza onoraria veniva concessa anche per riaffermare l’italianità. Non bisogna dimenticare, tuttavia, che lo squadrismo era ancora attivo e che il clima di intimidazione giocava un ruolo importante: la violenza fascista era spesso un fattore determinante nel condizionare le scelte amministrative. Dopo il delitto Matteotti, il sostegno al regime divenne sempre più una necessità per la sopravvivenza politica, trasformando questi riconoscimenti in atti di sottomissione forzata.

L’ascesa del fascismo in Italia è stata un processo complesso, segnato da violenza politica, crisi istituzionale e scelte opportunistiche da parte di chi avrebbe potuto fermarlo. La serie TV M. Il figlio del secolo, tratta dal romanzo di Antonio Scurati, racconta con grande efficacia gli eventi che portarono Benito Mussolini dal fallimento delle elezioni del 1919 al potere assoluto con la Marcia su Roma del 1922. Un percorso fatto di ambizione, strategia e brutalità, in cui il futuro Duce riuscì a trasformare un movimento minoritario in un regime capace di stravolgere la storia italiana. Quello che emerge dalla serie è un ritratto crudo e realistico di Mussolini, interpretato magistralmente da Luca Marinelli, (che peraltro ho avuto l'onore di ospitare) e del clima politico dell’epoca. Viene mostrata la paura della borghesia e dei grandi proprietari terrieri nei confronti del socialismo, il ruolo della violenza squadrista come strumento per destabilizzare l’ordine pubblico e la complicità di una classe politica debole e incapace di reagire. Si assiste alla costruzione del mito di Mussolini, abile nel parlare a diverse fasce della società e nel presentarsi ora come rivoluzionario, ora come garante dell’ordine, a seconda della convenienza.

Ma c’è un dettaglio che rende questa serie particolarmente interessante per chi vive o conosce Gorizia: diverse scene sono state girate in regione ed anche proprio qui. La città, con la sua architettura storica di via Rastello, ha offerto alla produzione un’ambientazione perfetta per ricreare l’Italia degli anni ’20. Questa scelta non è solo estetica, ma assume un significato profondo. Gorizia fu uno dei luoghi dove il fascismo attuò con maggiore durezza la sua politica di italianizzazione forzata, colpendo la comunità slovena attraverso la chiusura di scuole, giornali e associazioni culturali, fino alla repressione violenta del dissenso. Il fatto che, quasi un secolo dopo, proprio questa città sia stata scelta per raccontare l’ascesa del regime è un richiamo potente alla memoria storica.

Molti comuni oggi revocano la cittadinanza onoraria a Mussolini per una serie di ragioni che hanno a che fare proprio con la memoria storica, la condanna del fascismo e la riaffermazione dei valori democratici. Il conferimento di queste onorificenze, avvenuto perlopiù tra il 1922 e il 1924, fu spesso frutto di pressioni politiche, opportunismo o vera e propria intimidazione da parte del regime nascente. Revocarle oggi rappresenta un atto simbolico con cui le istituzioni locali prendono le distanze dal passato dittatoriale dell’Italia e ribadiscono l’adesione ai principi sanciti dalla Costituzione repubblicana.

Inoltre, il gesto assume un significato educativo, soprattutto per le nuove generazioni, ricordando gli orrori del fascismo e riaffermando i valori di libertà, giustizia e democrazia. Alcuni sostengono che queste revoche siano inutili perché si tratta di atti ormai privi di conseguenze pratiche, legati a un contesto storico remoto. Tuttavia, il simbolismo ha un peso importante nella costruzione della coscienza collettiva e della memoria pubblica. L’Italia ha una lunga storia di ambiguità nei confronti del proprio passato fascista, e iniziative di questo tipo aiutano a chiarire la posizione delle istituzioni nei confronti di una dittatura che ha portato il paese alla guerra, alle leggi razziali e alla repressione politica.

La revoca della cittadinanza onoraria a Mussolini è necessaria, soprattutto se consideriamo ciò che il fascismo ha rappresentato nelle aree di confine. In queste zone, il regime non si limitò alla dittatura e alla repressione politica, ma attuò una vera e propria politica di snazionalizzazione, colpendo duramente le minoranze linguistiche e culturali. Pensiamo non solo al Friuli Venezia Giulia, all'Istria, alla Dalmazia e all'Alto Adige, dove il fascismo impose l'italianizzazione forzata, cancellando toponimi, vietando l'uso delle lingue locali e reprimendo brutalmente le identità slovene, croate e tedesche. In questi territori, il fascismo non fu solo un regime autoritario, ma una macchina di oppressione etnica, che negava i diritti fondamentali delle popolazioni autoctone. La revoca della cittadinanza onoraria è quindi un atto di giustizia storica e morale, che ribadisce il rifiuto di quella politica di violenza e discriminazione. Non si tratta solo di un gesto simbolico, ma di un'affermazione concreta dei valori democratici e del rispetto delle identità culturali che il fascismo cercò di cancellare.

Peraltro, forse è il caso di ricordarlo, un altro elemento fondamentale da considerare quando si parla di Gorizia e del fascismo è il fatto che, nel 1943, Benito Mussolini cedette la città ai tedeschi, rendendola parte della Zona di Operazioni del Litorale Adriatico (Operationszone Adriatisches Küstenland). Questo passaggio rappresenta uno dei momenti più tragici della storia goriziana, perché segnò l’inizio di una feroce occupazione nazista, caratterizzata da repressioni, deportazioni e violenze contro la popolazione. Dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, il governo fascista ormai in frantumi non aveva più alcun controllo effettivo sul paese. Mussolini, liberato dai tedeschi e posto alla guida della Repubblica Sociale Italiana (RSI), accettò di fatto che intere aree del Nord Italia venissero amministrate direttamente dalla Germania nazista. Tra queste, il Friuli Venezia Giulia, il Litorale Sloveno e la Dalmazia furono inseriti in una zona speciale sotto il controllo del Gauleiter Friedrich Rainer, che operava direttamente agli ordini di Hitler. Credo che questo dato storico è cruciale quando si parla della cittadinanza onoraria a Mussolini, che il Consiglio comunale di Gorizia ha recentemente rifiutato di revocare. Appare quantomeno contraddittorio mantenere un'onorificenza a un uomo che, oltre a essere il responsabile dell’instaurazione della dittatura fascista, abbandonò la città ai nazisti, condannandola a mesi di occupazione e a una delle fasi più nere della sua storia. Nel contesto della serie M. Il figlio del secolo, questo elemento aggiunge un ulteriore livello di riflessione: Gorizia, che ha vissuto direttamente sia l’ascesa del fascismo che le sue conseguenze più drammatiche, diventa non solo un set cinematografico, ma un luogo-simbolo della memoria storica. Raccontare il passato in questi spazi significa riconoscere le responsabilità di chi ha favorito la dittatura e, soprattutto, ricordare le sofferenze di chi l’ha subita.

Nel votare una mozione per la revoca della cittadinanza onoraria a Mussolini, non si dovrebbe assistere al solito gioco delle parti tra maggioranza e opposizione, come avviene in tante altre questioni amministrative e politiche. Si tratta di un tema che non dovrebbe essere strumentalizzato per calcoli elettorali o per affermare il predominio di una parte politica sull’altra. Al contrario, dovrebbe essere affrontato con serietà e consapevolezza storica, perché riguarda il valore della memoria, della democrazia e dell’identità antifascista sancita dalla Costituzione italiana. La cittadinanza onoraria a Mussolini non è un semplice retaggio del passato, ma un simbolo di un’adesione che oggi non può più avere spazio. Non si può considerare la revoca come un’operazione di parte, né come una misura ideologica di uno schieramento contro un altro. Il fascismo è stato una dittatura che ha soppresso la libertà, perseguitato minoranze, represso il dissenso e trascinato l’Italia in una guerra devastante. Tenerne traccia negli atti ufficiali di un comune non può che essere una contraddizione rispetto ai principi della Repubblica.

Continuare a mantenere la cittadinanza onoraria significa non prendere una posizione chiara sul passato, mantenendo un’ambiguità che non può avere giustificazioni. Se davvero si vuole dare valore alla memoria e ai principi della Repubblica, il Consiglio comunale ha una sola scelta possibile: revocare senza esitazione quell’onorificenza. Non è una questione di destra o sinistra, ma di rispetto per la storia e per i valori democratici che oggi garantiscono la libertà di tutti.

GO! 2025 Solo fumo o anche arrosto? I consigli di Paolo Mieli

Comprendere la ricchezza della specialità di Gorizia non è immediato, proprio perché non si tratta di una città che si lascia raccontare con schemi semplici o identità monolitiche. Gorizia è, da sempre, un luogo di passaggi, di frontiere mobili, di incontri e scontri tra popoli diversi. Non è mai stata solo italiana, né solo slovena, né soltanto mitteleuropea: è un mosaico in cui ogni tessera porta con sé una storia, una lingua, un costume. Questa pluralità non è un concetto astratto, ma qualcosa che si tocca con mano camminando per le sue vie, ascoltando i dialetti e le lingue che si mescolano, assaporando una cucina che non conosce confini rigidi, ma si nutre di contaminazioni. E poi?

Paolo Mieli, noto giornalista e storico, sul quotidiano locale del 16 marzo scorso ha sottolineato come Gorizia abbia un'importanza storica significativa, ma ritiene che l'attuale impatto mediatico dell'evento GO!2025 sia inferiore alle aspettative. Egli si aspettava una serie di iniziative straordinarie che mettessero in luce la peculiarità della città, ma finora non le ha riscontrate. Mieli ha evidenziato anche che, a differenza di altre città come Matera, (capitale europea della cultura 2019) Gorizia ha la responsabilità di rappresentare un simbolo di integrazione europea, soprattutto in un periodo in cui emergono nuove tensioni geopolitiche. Egli ha auspicato che Go!2025 possa andare oltre le attività culturali tradizionali, promuovendo riflessioni profonde sul futuro dell'Europa e sul superamento delle divisioni storiche. In conclusione, Mieli invita Gorizia a sfruttare appieno l'opportunità offerta da Go!2025 per affermarsi come faro culturale e politico, capace di ispirare l'intero continente verso una maggiore coesione e integrazione.

Sante parole! Come si suol dire ... Paolo Mieli a mio avviso, tuttavia, interpreta la situazione con uno sguardo "da fuori", senza considerare la particolarità del carattere goriziano. Gorizia non è una città che ama le "iniziative clamorose", non ha una mentalità da vetrina o da grande evento spettacolare. La sua storia l’ha resa discreta, quasi schiva: è una città che vive di sottili equilibri, di una memoria complessa, di stratificazioni silenziose. Non è mai stata incline agli slanci roboanti, ma piuttosto a una cultura più sommessa, introspettiva, basata su piccole ma profonde connessioni tra le persone e i luoghi. Forse è proprio questo il punto che Mieli non ha colto: Gorizia non ha bisogno di effetti speciali per raccontarsi, perché la sua unicità sta nei dettagli, nelle tracce della sua storia, nella sua natura di confine vissuto più che proclamato. Questo, però, pone una sfida: come conciliare questa identità più discreta con la necessità di far emergere Go!2025 a livello europeo? Come trovare un modo per raccontarsi senza snaturarsi? Forse più che "clamore", ciò di cui c’è bisogno è "un racconto autentico", capace di trasmettere la profondità di questa città a chi non la conosce. Se Gorizia non fa rumore, deve almeno riuscire a far risuonare la sua storia, la sua memoria e la sua vocazione all’incontro. Il rischio, altrimenti, è quello di passare inosservati non per scelta, ma per mancanza di strategia.

Insomma, il carattere discreto di Gorizia è una sua peculiarità, ma questo non deve diventare un limite. Ed allora è proprio il caso di rimboccarsi le maniche! Un congresso di alto livello, come suggerisce Mieli, sarebbe un’occasione preziosa per dare a Go!2025 una risonanza più ampia, senza snaturare l’identità della città. Gorizia ha tutte le carte in regola e strutture adeguate per ospitare un grande evento culturale e storico che non sia solo un’esposizione artistica o letteraria o un festival di intrattenimento, ma un vero momento di riflessione internazionale sul significato delle frontiere, della convivenza tra popoli e della memoria europea. Potrebbe essere un convegno internazionale su confini, identità e riconciliazione, con ospiti di alto profilo, storici, sociologi, filosofi, scrittori, artisti e testimoni diretti dei cambiamenti avvenuti nella regione. Un evento che non parli solo di Gorizia, ma che parta da Gorizia per affrontare temi centrali per l’Europa di oggi:

- Il ruolo delle città di confine nell’integrazione europea

- L’evoluzione dell’identità in territori multietnici

- La memoria delle guerre e il superamento delle divisioni

- Il rapporto tra locale e globale nell’epoca della digitalizzazione

Se ben progettato, un congresso del genere potrebbe diventare il cuore simbolico di Go!2025, restituendo a Gorizia il ruolo che le spetta: non una città qualsiasi, ma un laboratorio storico e culturale di straordinaria importanza.

Peraltro, la recente consegna del Premio Ilario e Taziano a Borut Pahor e Sergio Mattarella non può restare un semplice gesto simbolico, ma deve trasformarsi in un’opportunità concreta per rafforzare il ruolo di Gorizia e Nova Gorica come modello di convivenza europea. Entrambi i leader hanno dimostrato, con azioni e dichiarazioni, il loro impegno nel superamento delle divisioni del passato e nella costruzione di una memoria condivisa. Sarebbe dunque naturale coinvolgerli attivamente nell’organizzazione di un convegno internazionale di alto profilo, capace di dare a Go!2025 una risonanza non solo culturale, ma anche politica e storica. Un evento che affronti i temi delle frontiere, della riconciliazione, dell’identità nei territori plurali, richiamando esperti, istituzioni e personalità europee.

La presenza di Pahor e Mattarella potrebbe fungere da catalizzatore per attrarre personalità di rilievo, garantire il patrocinio di istituzioni come l’Unione Europea e il Consiglio d’Europa, e soprattutto dare una direzione chiara a Go!2025: non solo un evento artistico, ma un’occasione per riflettere sul futuro dell’Europa, partendo dall’esperienza di una città che ha vissuto il confine nella sua complessità. Perché il superamento delle divisioni non è un processo che si esaurisce con la caduta di un confine fisico, ma richiede un lavoro costante di elaborazione storica, culturale e sociale.

Perché ciò accada, è necessario passare all’azione: serve una proposta chiara, strutturata, capace di coinvolgere Mattarella e Pahor non solo come ospiti d’onore, ma come promotori di un evento che lasci il segno. Gorizia deve avere il coraggio di fare un passo avanti, di trasformare la sua storia in un modello per l’Europa di domani. Tuttavia, il vero rischio è che questa occasione venga sprecata per mancanza di visione e volontà politica. Gorizia ha davanti a sé una possibilità storica: uscire dall’ombra e farsi riconoscere come laboratorio europeo di dialogo e memoria. Ma senza un impegno concreto da parte delle istituzioni locali e nazionali, senza una strategia chiara per coinvolgere figure di rilievo come Pahor e Mattarella, tutto potrebbe ridursi a una serie di eventi scollegati, privi di un messaggio forte e duraturo.

È lecito chiedersi se ci sia davvero la determinazione necessaria per trasformare Go!2025 in qualcosa di più di un cartellone di iniziative culturali. Se prevarrà l’approccio prudente e autoreferenziale, Gorizia rischia di perdere l’opportunità di dare un contributo reale al dibattito europeo e di restare nell’ombra, senza riuscire a far emergere la sua unicità. Serve coraggio, serve una visione che guardi oltre l’evento in sé e pensi a cosa Go!2025 potrebbe lasciare in eredità alla città e all’Europa. Il tempo stringe. Se non si agisce ora, Gorizia rischia di restare spettatrice della propria storia, invece che protagonista del proprio futuro.

Memoria storica e senso di appartenenza: difficile ma necessaria la sintesi per i Goriziani.

Pedalando nel Tempo. C’erano giorni in cui la libertà aveva il suono della catena che scorreva sui pedali e il vento tra i capelli. Da ragazzina, la bicicletta era molto più di un semplice mezzo di trasporto: era il simbolo dell’avventura, dell’indipendenza e della voglia di scoprire il mondo fuori casa. Bastava un raggio di sole, una merenda nell'immancabile tascapane (non si usavano ancora gli zainetti se non per le escursioni in montagna) e una strada da percorrere per trasformare una giornata qualsiasi in un viaggio indimenticabile. Le scorazzate in bicicletta erano un rituale spontaneo, nate spesso da un’idea improvvisa o da un appuntamento concordato la sera prima con gli amici. Si partiva senza fretta, con itinerari che seguivano più l’istinto che una vera e propria mappa, tra sentieri polverosi, campi dorati e brevi soste in una delle tante osterie di paese per un bicchiere di spuma. Oggi, ripensando a quelle pedalate spensierate, sento che non erano solo gite, ma piccole lezioni di libertà e di scoperte. Una delle osterie che di più amavo era quella di Rubbia la cui terrazza si affacciava sul Vipacco. Scrivo utilizzando il tempo passato perchè questa osteria ha chiuso, e credo da non molto, i battenti. Mi dispiace molto perchè vi si potevano trovare ottimi affettati e tutti i piatti tipici della cucina regionale. Adoravamo questa osteria perchè c'era il Juke box e, sopratutto d'estate, era bello ballare in cortile sotto la pergola. La meta, comunque, la maggior parte delle volte era la cima del colle, ovvero l'abitato di San Michele alle cui porte era in costruzione un bunker, nel quale era possibile entrarci per diverso tempo. Ci chiedevamo ogni volta, erano gli anni 60, il senso di quell'opera di natura bellica, tenuto conto che ormai la maggior parte dei goriziani aveva imparato a convivere con il confine e non temeva più l'arrivo dei Tartari. Insomma, nessun Giovanni Drogo sarebbe mai stato posto a sentinella in quel cucuzzolo che d'autunno si tinge di rosso per i cespugli di sommaco che lo ricoprono. Ecco, vorrei partire da questo inutile bunker per raccontare alla generazione che non ha vissuto la nascita del confine l'importanza della memoria storica che, a mio avviso, va protetta sopratutto in quelle situazioni in cui la Storia è caratterizzata da elementi complessi, com'è stato per Gorizia.

La memoria storica e il senso di appartenenza, infatti, sono strettamente intrecciati, come se fossero i fili di un tessuto che dà forma all'identità collettiva di una comunità. La memoria storica rappresenta il ricordo condiviso di eventi, valori e tradizioni che hanno plasmato una società nel corso del tempo. Attraverso la narrazione di queste esperienze, si tramandano le radici culturali e si costruisce un ponte tra passato e presente. Insomma, la nostra memoria storica non si può limitare a ciò che i nostri genitori ci hanno raccontato.

Partiamo, pertanto, da un po' più lontano. Durante il periodo dell'Impero Austro-Ungarico, Gorizia era una città di frontiera con un'importanza strategica e culturale significativa. Situata nel Litorale Austriaco, la città era un crocevia di culture, lingue e tradizioni, grazie alla sua posizione geografica e alla composizione etnica variegata. Era abitata da italiani, sloveni, tedeschi e altre comunità, che convivevano in un contesto multiculturale. La città era nota per la sua architettura elegante, (fortunatamente molti edifici esistono ancora nonostante le due guerre) e per il suo ruolo come centro amministrativo e commerciale. La città ospitava istituzioni educative e culturali che riflettevano la diversità della popolazione. Tuttavia, la sua posizione di confine la rendeva anche vulnerabile alle tensioni politiche e militari, che si intensificarono con l'avvicinarsi della Prima Guerra Mondiale. Dopo la Prima Guerra Mondiale, Gorizia subì profondi cambiamenti politici, sociali e culturali. Con la fine del conflitto e il Trattato di Rapallo del 1920, la città passò dall'Impero Austro-Ungarico al Regno d'Italia. Questo cambiamento segnò l'inizio di un periodo di trasformazioni significative, la prima delle quali fu che divenne parte della provincia di Udine fino al 1927, quando fu istituita la provincia di Gorizia; comunque perse il suo ruolo di centro amministrativo regionale che aveva avuto sotto l'Impero Austro-Ungarico. Altro aspetto cruciale è che durante il regime fascista, ci fu un'intensa politica di italianizzazione, che mirava a sopprimere le identità culturali slovene e tedesche presenti nella regione. Furono chiuse scuole slovene e associazioni culturali, e molti toponimi furono italianizzati. Ad esempio, al cognome di mio padre, nato nel 1920, venne tolta la "g" finale, con decreto prefettizio.

Per Gorizia, con la prima guerra mondiale, ci furono pesanti conseguenze economiche e sociali. Lasciò, infatti, non solo cicatrici visibili nel paesaggio urbano, ma anche profonde ferite economiche e sociali. Durante il conflitto, la città fu duramente colpita: le battaglie lungo l’Isonzo trasformarono Gorizia in un importante teatro di guerra, con bombardamenti che distrussero gran parte del tessuto cittadino, dalle abitazioni alle infrastrutture. Le ferrovie, i ponti e gli edifici pubblici vennero gravemente danneggiati, paralizzando le vie di comunicazione e i commerci locali. La fine della guerra, e l’annessione all’Italia, non coincisero con una pronta rinascita. Anzi, la ricostruzione fu lenta e difficile. Gorizia, che prima del conflitto godeva di una posizione privilegiata all’interno dell’Impero Austro-Ungarico, perse bruscamente i suoi tradizionali mercati di riferimento. I rapporti commerciali con Vienna, Graz, e con il resto dei territori imperiali, vennero interrotti. Le imprese locali, abituate a muoversi all’interno di una vasta area mitteleuropea, si trovarono isolate, costrette a riorientare le proprie attività verso un mercato italiano che, per lingua e modalità economiche, risultava estraneo. L’economia cittadina, un tempo vivace e integrata con quella austro-ungarica, soffrì anche per la crisi agricola delle campagne circostanti, che avevano subito danni enormi a causa delle operazioni militari. Il settore manifatturiero e commerciale faticava a riprendersi, e l’emigrazione di lavoratori sloveni e tedeschi — disincentivati dalle nuove politiche — impoverì ulteriormente la città.

Parallelamente, anche il tessuto sociale di Gorizia venne profondamente segnato dal dopoguerra. Fino alla fine dell’Impero, Gorizia aveva rappresentato un modello, seppur imperfetto, di convivenza tra diverse comunità: italiani, sloveni, tedeschi ed ebrei coesistevano, ciascuno con le proprie scuole, associazioni e luoghi di culto. L’annessione all’Italia e, successivamente, l’avvento del fascismo segnarono però una netta rottura di questo equilibrio. La politica di italianizzazione non solo impose l’italiano come unica lingua ufficiale, ma avviò una sistematica repressione delle culture slovena e tedesca. Le scuole slovene e tedesche vennero chiuse, le associazioni culturali sciolte, la stampa non italiana censurata. Queste misure produssero un clima di crescente tensione e diffidenza tra le comunità. La popolazione slovena, che costituiva una parte rilevante degli abitanti, fu particolarmente colpita: privata dei propri strumenti culturali e linguistici, divenne oggetto di discriminazioni e sospetti, accentuati dalle misure repressive fasciste. Anche la piccola comunità germanofona, già ridimensionata dopo la guerra, si ridusse ulteriormente, contribuendo al progressivo impoverimento del mosaico culturale che aveva caratterizzato Gorizia per secoli. In questo contesto, la città non solo perse il suo ruolo economico centrale nell'area danubiana, ma vide sgretolarsi quel fragile equilibrio sociale che l’aveva resa un crocevia di popoli e culture.

Mi chiedo spesso se, guardando agli eventi di quest’ultimo secolo, sia realistico sperare in un senso di appartenenza condiviso. Ho l’impressione che nelle nuove generazioni questo sentimento manchi, ma non per indifferenza: semplicemente, credo che spesso non conoscano davvero il passato. È proprio da qui che nasce la mia convinzione che la memoria storica di Gorizia, il suo vissuto complesso, sia fondamentale per sviluppare un’identità emotiva legata al territorio. È la conoscenza della storia che ci fa sentire parte di qualcosa di più grande — che si tratti di una comunità, di una città o di un ideale di convivenza. Questo sentimento, se coltivato, non solo rafforzerebbe i legami sociali, ma potrebbe anche ispirare un impegno condiviso verso il bene di tutti. Penso vada letta in quest'ottica l'importante ed irripetibile occasione di GO!2025.

Conservare e diffondere la memoria storica è essenziale per comprendere il presente e prevenire gli errori del passato. La storia di Gorizia, con il suo ruolo di confine tra due mondi, l’operazione Gladio e le tensioni della Guerra Fredda (di cui scriverò prossimamente), rappresenta un esempio di come la geopolitica abbia influenzato la vita quotidiana delle persone. Studiare questi eventi permette di sviluppare una coscienza critica sugli equilibri internazionali e sui rischi connessi alle guerre ideologiche e alle operazioni segrete. La memoria storica non è solo un dovere nei confronti delle generazioni passate, ma anche uno strumento fondamentale per costruire un futuro più consapevole e democratico.

Sulle pagine online del Corriere della Sera, Gian Antonio Stella l'11 febrraio scorso scriveva: "E' vero: le parole «razza slava inferiore» non si leggono in caratteri cubitali come «TITO» perfino nelle foto di Google Earth come spiegavamo ieri sul Corriere. E non sbattono tutti i giorni in faccia alle vittime il ricordo d’un passato che è passato. L’abbiamo scritto e lo ripetiamo: Gorizia e Nova Gorica, Capitali europee della cultura non meritano la scritta che campeggia sul Monte Sabotino. Detto questo, sarebbe più facile avviare fraternamente la rimozione delle enormi pietre d’insulto se l’altra faccia dell’antico nazionalismo calloso prendesse atto di quanto possa essere offensiva per gli slavi la cocciuta insistenza di certi italiani nel celebrare la Xª Mas e nel rifiutare la rimozione della cittadinanza onoraria data 100 anni fa, alla vigilia del delitto Matteotti, a Benito Mussolini." Ovviamente concordo totalmente. Oggi, con Gorizia e Nova Gorica nominate Capitali Europee della Cultura per il 2025, diventa ancora più importante parlare e scrivere di questi temi. Questo riconoscimento rappresenta un'opportunità unica per riscoprire e valorizzare la storia della città, promuovendo il dialogo tra le diverse memorie e identità che hanno attraversato questo territorio. Gorizia non è più un confine che divide, ma un simbolo di cooperazione e condivisione culturale tra popoli un tempo contrapposti. La conoscenza del passato è fondamentale per costruire un futuro basato sulla comprensione reciproca e sulla pace. Bisogna metterci, però buona volontà e avere la sincerità di guardare le cose con onestà. Mi chiedo quanti anni debbano ancora passare prima che si riesca davvero a costruire una memoria condivisa, capace di andare oltre le ferite del passato, e con essa un autentico senso di appartenenza comune. Per troppo tempo la memoria è rimasta spezzata, frammentata in tante narrazioni parziali, spesso contrapposte: ciascuna comunità legata alla propria versione dei fatti, alla propria sofferenza, incapace di riconoscere il dolore altrui. Eppure, senza questo riconoscimento reciproco, senza la volontà di accettare che la storia è fatta di luci e ombre da entrambe le parti, resta difficile sentirsi parte di un progetto comune. La memoria condivisa non significa cancellare le differenze o uniformare le identità, ma piuttosto trovare uno spazio in cui ciascuno possa sentirsi ascoltato e rispettato. Solo così, con pazienza e coraggio, può nascere quel senso di appartenenza che non si fonda sull’omologazione, ma sulla convivenza consapevole. Forse ci vorranno ancora anni, forse generazioni, ma ogni piccolo gesto di apertura, ogni occasione di dialogo, contribuisce a costruire quel ponte necessario tra passato e futuro. Perché appartenere a un luogo non significa chiudersi, ma riconoscere che la sua storia è fatta di molte voci, e che solo ascoltandole tutte si può trovare una vera casa.

Una gita fuori porta in provincia di Padova: non solo ville, ma anche monasteri

Quando si pensa alla provincia di Padova, il pensiero corre subito alle eleganti ville venete che punteggiano la campagna, testimoni di un passato di nobiltà e bellezza. Ma accanto a questo patrimonio di architettura e arte, esiste un'altra anima del territorio, più raccolta e silenziosa: quella dei monasteri. Se le ville raccontano la vita mondana, i monasteri sussurrano la storia di una spiritualità operosa, fatta di preghiera, lavoro e armonia con la natura. Luoghi dove il tempo sembra essersi fermato e dove la bellezza si manifesta nella semplicità di un chiostro, nel profumo di un'antica spezieria o nel rigore di una biblioteca millenaria.

In circa due ore di macchina si arriva all'uscita dell'autostrada di Terme euganee. Basta percorrere, quindi circa 170 chilometri da Gorizia per imbattersi nel castello del Catajo (che va assolutamente visitato) e da lì raggiungere facilmente queste tre isole di pace: L'Abbazia di Praglia, incastonata tra i Colli Euganei, con i suoi chiostri rinascimentali e la preziosa biblioteca, uno dei simboli della tradizione benedettina, dove ancora oggi la vita si svolge secondo la regola dell'ora et labora; il Monastero di San Daniele, con la sua vista mozzafiato sui colli, spazio di ritiro dove il silenzio si mescola ai profumi del bosco e l'Abbazia di Carceri, un piccolo gioiello che affonda le radici nel Medioevo, esempio di come la fede abbia modellato il paesaggio. In tutti e tre i monasteri si intrecciano cultura, spiritualità e tradizioni artigianali. Qui si producono mieli, tisane, cosmetici naturali, libri e manufatti artistici, frutto di una sapienza antica che resiste al tempo, ed anche un ottimo vino. Il vino: gran bella scoperta quella fatta l'ultima domenica di febbraio quando, dopo una mattinata a curiosare tra le bancarelle del mercatino di Piazzola sul Brenta, che si svolge l'ultima domenica di ogni mese, sono arrivata al Monastero di Praglia dove mi ero ripromessa di accompagnare una coppia di amici bolognesi e dove, personalmente, avevo chiesto un colloquio con l'Abate per i motivi che tra un po' condividerò.

Da tempo avevamo deciso di trovarci a metà strada e fare una full immersion culturale e spirituale. Era da un bel po' che desideravo ritornarci. C'ero già stata altre volte ed avevo avuto anche l'occasione di visitare la bellissima e antica biblioteca monumentale che, purtroppo, è possibile visitare soltanto in determinati orari, ovvero il secondo e quarto sabato del mese alle quattro del pomeriggio. Ovviamente, un discorso a parte è la biblioteca vera e propria alla quale si può accedere ogni giorno, con eccezione del lunedì per attività di studio e di ricerca.

In occasione della penultima visita avevo avuto modo di scoprire, sentito l'inconfondibile dialetto bisiaco, che il monaco il quale ci aveva accompagnati nella esplorazione del monastero era originario di Monfalcone. Ma lo stupore (e devo dire anche il piacere) è aumentato notevolmente, quando il monaco/guida ci ha precisato che l'Abate del monastero è un goriziano. Ovvio che, appena rientrata a casa, avevo voluto approfondire la questione ed era sorto, immediatamente, il desiderio di conoscerlo. Perchè non accade tuti i giorni che un uomo decida di interrompere una promettente carriera scientifica per farsi monaco.

All'epoca della sua nomina, sei anni fa, la stessa fece infatti molto scalpore e tutti i quotidiani nazionali ne parlarono diffusamente. Il motivo è presto detto: Stefano Visintin, come racconta il Corriere della sera, prima di approdare la vita monastica, aveva una carriera già ben avviata. A meno di trent'anni, infatti, si occupava di acceleratori di particelle nell’ambito di un progetto dell’Istituto nazionale di Fisica nucleare.

Ero impaziente di incontrare Dom Visintin, perché avevo tre domande da porgli. Erano quesiti difficili, che mi tormentavano da tempo e che non avrei mai osato rivolgere a un monaco o a un sacerdote, se non fossimo stati accomunati dalle stesse origini e dalla sua solida formazione scientifica. Le sue risposte le avrei poi raccolte in questo Blog. Ma nel momento in cui ho terminato di trascrivere la registrazione, perchè non volevo perdere nulla di quanto mi sarebbe stato spiegato, mi sono resa conto che ragionamenti così delicati e complessi mal si coniugano con la leggerezza di un Blog. Custodisco, pertanto, (solo per me) le argomentazioni che avevamo sviluppato nella chiaccherata nell'accogliente saletta all'interno del Monastero in un file da archiviare nel Cloud.

Non credo che, a questo punto, debba necessariamente raccontare qualcosa in più sulle ragioni della scelta di questo cittadino illustre! Perchè le motivazioni che lo hanno indotto alla radicale decisione sono tutte disponibili online e quindi accessibili da parte di tutti. Sta di fatto che dopo aver approfondito gli studi in fisica nucleare, Visintin ha scelto di intraprendere il percorso monastico, dimostrando che la ricerca della verità e la comprensione del mondo possono prendere forme diverse. La sua formazione scientifica, basata su rigore e metodo, si intreccia ora con la dimensione spirituale e contemplativa della vita monastica, ovvero la ricerca del trascendente. Questa fusione di esperienze e competenze testimonia una visione del mondo in cui conoscenza e fede coesistono. Si può dire quindi che l'abate Stefano Visintin rappresenta l'esempio più eclatante del connubio tra scienza e spiritualità. Emblematico, quindi, il titolo del suo libro uscito proprio ieri, E Dio disse: sì alla scienza! Il pensiero mistico e spirituale di Teilhard de Chardin, per i tipi della Queriniana

Chi crede che i monaci siano solo custodi del passato e che la loro vita sia esclusivamente dedicata alla preghiera si sbaglia di grosso. La vita monastica è un equilibrio dinamico tra tradizione e innovazione, tra contemplazione e azione. Oltre alla preghiera, i monaci si dedicano allo studio, alla ricerca, al lavoro manuale e intellettuale. Insomma, il monachesimo non è un rifugio dal presente, ma una dimensione che offre strumenti di riflessione, disciplina e conoscenza applicabili anche al mondo moderno, non trascurando il fatto che i monasteri devono autofinanziarsi.

Ed ecco che il vino ritorna in primo piano! Non senza mascherare un po' di orgoglio l'Abate ci ha raccontato, infatti, che l'Abbazia produce 60.000 bottiglie di vino e, complessivamente, ben 1.000 ettolitri, per lo più di ottimo spumante. Insomma, il far parte del Consiglio d'amministrazione del Consorzio dei vini dei colli euganei doc non è altro che proseguire sulla strada avviata dal mitico Dom Pérignon. Ma se tutti sanno che il Dom Pérignon è un prestigioso champagne millesimato, cioè prodotto solo nelle annate migliori con uve provenienti esclusivamente da quell’anno prodotto dalla maison Moët & Chandon e simbolo di lusso ed eleganza, credo siano in pochi a sapere che prende il nome dal monaco benedettino Dom Pierre Pérignon.

Dom Perignon è stato un monaco benedettino francese nato intorno al 1638 e morto nel 1715, che visse nell'Abbazia di Hautvillers, in Champagne. La sua figura è diventata leggendaria nell'ambito della vinificazione, in particolare per il suo contributo nel perfezionare il metodo di produzione dei vini spumanti. Anche se non tutti sono convinti che "inventò" il metodo da zero, le sue innovazioni – come la selezione accurata delle uve, il miglioramento della gestione delle fermentazioni e l'arte del miscelamento – hanno giocato un ruolo fondamentale nel trasformare la produzione del vino in Champagne, contribuendo alla nascita di uno dei vini più famosi al mondo. Il metodo, noto come metodo champenoise o, più recentemente, come metodo tradizionale o classico è il metodo utilizzato per produrre lo spumante di Praglia che offre una selezione capace veramente di soddisfare tutti i gusti.

Praglia, quindi, in una gita fuori porta per sperimentare una accoglienza silenziosa, misurata, quasi sospesa. Non c'è fretta nei monasteri, e questo già disorienta. Il chiostro invita a rallentare il passo, a lasciare fuori il rumore, a riscoprire una lentezza che non è perdita di tempo, ma un modo diverso di abitarlo. Le mura spesse custodiscono secoli di preghiere e di vita, mentre la luce filtra discreta tra le pietre, creando giochi di ombre che sembrano dialogare con il silenzio. Si torna a casa con la sensazione che qualcosa, dentro, sia stato messo a posto. Come se, per qualche ora, la vita avesse ritrovato il suo giusto respiro. Insomma, una esperienza che non delude mai. Superare la porta di un monastero è come oltrepassare una linea di confine, varcare una soglia invisibile dove il tempo assume un ritmo diverso. Fuori il mondo corre, si affanna, si consuma nella fretta di fare, di possedere, di arrivare. Dentro, tutto rallenta, si fa essenziale.

Anche nel piccolo negozio dove i monaci offrono, in vendita, non soltanto la loro produzione di ottimi vini ma anche creme curative si respira un'atmosfera sospesa, dove il tempo sembra rallentare. E' un luogo discreto, quasi appartato, piccolo mondo dentro il mondo, dove il frastuono resta fuori e la merce esposta racconta storie di cura e di memoria. I profumi avvolgono l'aria: lavanda, miele, erbe officinali, oli balsamici. Ogni oggetto ha il sapore di un gesto antico, tramandato con pazienza. I vasetti di marmellata, le tisane, le creme naturali portano con sé un'idea di tempo che non ha fretta, di saperi che si tramandano con le mani e il cuore. La lentezza qui è una virtù, e l'acquisto diventa quasi un rito di rispetto verso chi ha coltivato, distillato, confezionato con discrezione e dedizione. Poi, ad orari cadenzati, la visita dell'Abbazia. Anche se alla domenica i gruppi di visitatori sono sempre abbastanza numerosi, ci si rende conto subito che il chiavistello che gira nella serratura non chiude, ma apre: lascia fuori il frastuono e invita a entrare in uno spazio sospeso, dove il silenzio diventa linguaggio e la misura delle cose si rivela nella loro semplicità.

Ma tu di che caffè sei?

Chissà, prima o poi qualcuno potrebbe domandarcelo: Ma tu, di che caffè sei?

Come credo di aver scritto già più volte, è ormai diventata una abitudine – quando si accede il pc - scorrere le notizie che il motore di ricerca di giorno in giorno propone, nel momento in cui viene aperta una nuova finestra. La notizia che stamattina ha catturato la mia attenzione è stata questa: Le nuove generazioni stanno abbandonando l'espresso. Breve storia del caffè e di come è cambiato il suo consumo. Una rapida occhiata al testo e apprendo che: “La napoletana piace molto ai giovani, così come ad essi piacciono i caffè preparati con i “nuovi” strumenti tipo l’aeropress, la chemex o il syphon, che in realtà esistono da decenni ma in Italia abbiamo scoperto solo grazie alla cultura specialty.” Oddio! Ma di che cosa stiamo parlando? Muovo il mouse tre schede a sinistra, dove ormai sono costantemente loggata, e chiedo aiuto a Chatgpt: che cos’è l’aeropress, la chemex o il syphon? Ecco qua la sua pronta immediata risposta:

“Ah, mi sa che qui si parla di caffè fatto con metodo! ☕️

Allora, Aeropress, Chemex e Syphon sono tre sistemi di estrazione manuale che escono dalla classica moka o espresso, perfetti per chi ama un approccio più consapevole e sperimentale al caffè. Ti faccio una piccola panoramica:

Aeropress: 👉 Inventata nel 2005, è la più recente e anche la più pratica. Sembra una grossa siringa di plastica con un filtro in carta o metallo. Funziona a immersione, cioè il caffè macinato si mescola con l’acqua calda e poi viene spinto giù con la pressione manuale. Risultato: Un caffè molto pulito, corposo e aromatico, senza residui. Perfetta per chi ama un caffè tra l'espresso e l'americano, ma con la possibilità di giocare con tempi di infusione e pressione.

Plus: Si porta ovunque, è economica e facile da pulire. (Una piccola verifica e scopro che, ovviamente, su Amazon è già disponibile)

Chemex: 👉 Un'icona di design (nata nel 1941), sembra una clessidra di vetro con il filtro di carta conico sopra. È un metodo a percolazione (l'acqua scende lentamente attraverso la polvere di caffè).

Risultato: Caffè molto pulito, delicato, con profumi floreali e fruttati. Se ti piace il caffè lungo, quasi come un tè, questo è il metodo perfetto. Plus: Bellissima da vedere, ideale per più tazze, ma richiede tempo e pazienza. (Questo, a dire il vero, lo conoscevo già anche se con altro nome con riferimento al caffè all’americana)

Syphon (o Sifone): 👉 La più scenografica e vintage, sembra uscita da un laboratorio di alchimia. Funziona con due globi di vetro sovrapposti: l'acqua nel globo inferiore viene scaldata con un fornelletto, sale nel globo superiore dove incontra il caffè macinato, poi riscende filtrata.

Risultato: Caffè aromatico, morbido, con corpo setoso e pulito. Il metodo esalta soprattutto le note fruttate e floreali.

Plus: Spettacolare da vedere, ma richiede manualità e tempo. (Questo ovviamente non appena ho ammortizzato la spesa per l’acquisto della Delonghi Rivelia me lo compero certamente."

Se sei cresciuta a caffè nero bollente anni '70 e moka, - mi dice Chatgpt - questi metodi sono una rivoluzione perché tirano fuori sfumature di sapore che prima manco ci sognavamo. Per concludere con l’immancabile domanda: “Che rapporto hai con il caffè? Ti intriga più l'idea del rituale o sei più da caffè rapido e diretto?” Risposta difficile … sono una gran consumatrice di caffè. Vuoi perché soffro di bassa pressione, vuoi perché al bar con le amiche non so che altro prendere. Ma questo articolo ha sparigliato le mie carte e voglio scoprire il nuovo mondo. Intanto ho deciso: in settimana vado a Trieste, perché ho letto in questa pagina che ce ne sono ben quattro di specialty coffee!

Per saperne di più leggi questo articolo del Gambero rosso on line: Salviamo gli specialty coffee dalla moda degli specialty coffee!