Un Natale diverso. La lettera di Gesù Bambino agli uomini

Su gentile concessione dell'autrice, Stefania Conte, pubblichiamo il racconto da lei scritto in occasione del Natale 2020 e pubblicato sul Messaggero Veneto di mercoledì 23 dicembre. Un'occasione per riflettere non soltanto sul senso del Natale ma sul senso stesso della nostra vita.

Oggi è tornato il 25 dicembre. Davanti ai miei occhi sempiterni fanno mostra di sé innumerevoli lettere. Mi sono state inviate dai discendenti di Adamo, messo da mio Padre nel Giardino dell’Eden e da là cacciato perché non seppe attendere il tempo giusto per amministrare la conoscenza. Adamo continuò per difetto e arroganza a non comprendere che sapienza e saggezza vanno amministrate con prudenza. Lo dissi a mio Padre che quel mangiatore di frutta proibita e la sua progenie avrebbero mantenuto il ‘difetto di fabbricazione’. Per ovviare all’ingiuriosa affermazione dello sbaglio, mi resi disponibile a scendere fra gli uomini tentando di porvi rimedio. Pur sapendo che le cose per me avrebbero preso una tragica piega. Ottenni un piccolo corpo di Bambino e gioii quando venni al mondo, trovandomi abbracciato da un’adolescente, che fu Madre misericordiosa. Ho letto le lettere. Alcune non sono indirizzate a me, ma a Babbo Natale, parente stretto dei tre Re Magi che vennero a rendermi omaggio con preziosi doni seguendo una cometa. Altre sono state scritte per Epifania,invocata dai cuccioli d’uomo che non vogliono trovare la calza colma di golosi simboli apotropaici, o di punitivo carbone. Esigono giocattoli costosi e abiti griffati. Una sparuta minoranza di queste missive chiede a elfi rosso vestiti, retaggio del paganesimo, l’esaudimento di desideri fittizi: l’eterna giovinezza, un’automobile, un posto di senatore della Repubblica, la ricchezza. Alcuni mi hanno scritto con grafia e sintassi approssimative, non abituati a soffermarsi su pensieri profondi; m’implorano di essere sanati da una malattia o di sopravvivere alla pandemia. Purtroppo il motivo è l’egoismo: non vogliono lasciare ai parenti gli averi. Nessuno chiede qualcosa per qualcun altro. Pochi sono quelli che spostano il fuoco delle priorità dai desideri al bisogno fondamentale, qual è l’amore. L’Amore che ho per tutti non si affievolisce, ma mi dolgo nel saperli in balia delle tentazioni suggerite dai demoni custodi dei sette Vizi Capitali. Gli uomini sono, nella maggioranza, accidiosi, lussuriosi, iracondi, golosi, invidiosi, avari e superbi. Hanno abbandonato i miei insegnamenti e coltivano la maligna idea dell’invincibilità. La Morte li falcidia contando sulla Guerra, sulla Carestia e sulla neonata Virulenza, ma si vede sminuita da chi si fa beffa di lei. Per questo è venuta a dirmi che i Figli di Adamo sono una partita persa: negano l’esistenza del dolore, volgono lo sguardo oltre i letti d’ospedale, provano indifferenza di fronte a chi annaspa fra le onde e trovano superfluo versare lacrime per i vecchi. Dov’è l’umanità per cui sono nato? Forse il Santo Natale non è più mio, ma di un ingannevole dio minore. Finalmente ho fra le mani la Lettera che cercavo! È scritta sul coperchio di una scatola da scarpe. Le parole appartengono a un uomo dolente, seduto sui gradini di una chiesa. Scrive e piange, perché un tempo era un prete. “Gesù,t’invio questa lettera. L’ho scritta ricordando la gioia provata quando, da bambino,sceglievo le parole con cui rivolgermi a te. Sono invecchiato in un paese che festeggia il Natale in modo laico, evitando i canti inneggianti la Cristianità, arricchendo il presepe con statuine di calciatori, politici e altre icone del successo. La festa non è più sperare nella vittoria della Bontà sul Male. Ieri hanno trovato un neonato nel cassonetto, abbandonato da una madre a sua volta abbandonata dalla stima in sé stessa. Altri bambini, cresciuti sotto le nuvole d’acciaio dell’Ilva di Taranto, sono morti di cancro. Sono spirati ascoltando il pianto della mamma e in sottofondo un giornalista televisivo che dava notizia dell’espulsione del vip di turno dalla Casa del Grande Fratello, un prefabbricato di plastica dove è concesso mettere a nudo l’anima vuota. Un mese fa si è avvicinato a me un uomo e gli ho sorriso. Ogni domenica veniva a messa e il sabato prima si confessava, mostrando pentimento per il tradimento della moglie e per la cocaina sniffata. Non ha risposto con un sorriso ma dandomi cinquanta euro. Non era elemosina, la sua: ha voluto pagare il tempo che negli anni gli avevo dedicato. La mia Fede in te non vacilla, quella negli uomini l’ho perduta nel momento in cui ho visto caricare sui camion militari le bare dei morti per Coronavirus. Le ho seguite all’inceneritore. Quando ho saputo che la misericordia del Governo ha emesso la fattura esigendo il pagamento delle esequie, ho lasciato i voti. Preferisco stare in disparte a meditare su ciò che l’uomo sta perdendo. Nelle settimane precedenti il 25 dicembre, le menti più illuminate hanno sprecato fiato e fiumi d’inchiostro per suggerire come vivere il Natale. Chi ha imposto di darsi agli acquisti per il bene dell’economia; chi a isolarsi per cercare un presepe filosofico dentro sé stesso, trasformando i pensieri fini in mute statuine; gli ipocriti hanno dato l’esempio regalando ai poveri del denaro, ma solo per dimostrare che anche i ricchi piangono. Troppo pochi, se non qualche romantico che piange raccogliendo un pettirosso infreddolito o si commuove ascoltando una donna rimasta sola, comprende cos’è il Natale. Potevamo fare tesoro del dolore, ma abbiamo voltato lo sguardo. Urliamo la nostra libertà e rifiutiamo le regole, ma siamo prigionieri di noi stessi, perché non sappiamo scegliere fra ciò che è giusto e ciò che non lo è. Gesù, anche se ho perso la speranza di credere negli uomini non ho perso la Fede. Ti ringrazio, perchésdraiato nellacullamostri agli increduli la realtà del mistero del Bambino che incarna la Vita”. Anche oggi rinasco e spalanco gli occhi, aggrappandomi alle parole di questa creatura. Mi scaldano più del fiato del bue e dell’asino, poiché quest’uomo si duole per gli altri. Buon Natale a te che fai dono della mia venuta.

L'autrice, Stefania Conte, di origine veneta si è trasferita anni fa in Friuli Venezia Giulia e, da un paio d'anni, assieme al marito - pure lui scrittore ed editore (Paolo Morganti) vive in frazione del comune di Socchieve. Stefania Conte è scrittrice eclettica. Suo, ad esempio, è La stanza di Piera, romanzo storico, ambientato durante la Seconda Guerra Mondiale. L'Istria, prima e immediatamente dopo il 1943, fa da palcoscenico principale alle vite di coloro che hanno risposto alla dominazione italiana, tedesca e jugoslava con la paura, lo spaesamento, il dolore, la speranza, la gioia, la tolleranza, l'accettazione ideologica e l'odio etnico. Dopo l'Armistizio dell'8 settembre 1943, Mirna Battistella e Libero Martini incrociano le loro vite, nel dramma del genocidio delle fòibe. Piera Leoni è un'istriana che vive a Fianona, paese affacciato sul golfo del Quarnero. Mantenendo una vita scandita dalle abitudini, sembra impermeabile ai fatti della Storia. Il suo impegno principale, cucire rose di stoffa, si svolge all'interno della sua stanza. Libero è un giovane idealista cresciuto ad Albona, che si arruola nelle file partigiane con il nome di battaglia il Sordo. Nel settembre del '43 incontra Piera e sarà fra quelli che la condurranno al castello di Pisino, sede del quartier generale dei partigiani di Tito, dove sarà processata quale nemica del popolo. La vita del partigiano sarà sconvolta dalla scelta inaudita compiuta dalla donna. Sessant'anni dopo, l'uomo scrive le sue memorie. In queste c'è anche la storia di Piera. Il romanzo si basa su fatti e personaggi reali. Ma Stefania Conte è anche autrice di

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