Ivan Crico – Le parole che dipingono il confine

Un’intervista per il podcast “Voci dal Confine”

Insegnante al Liceo Artistico “Max Fabiani” di Gorizia, poeta in bisiaco, pittore dell’anima. Ivan Crico è una delle voci più profonde e autentiche del nostro territorio. Lo abbiamo incontrato per il podcast Voci dal Confine in un momento particolare: è tra i protagonisti della programmazione artistica dell’associazione QuiAltrove, impegnata a rivitalizzare via Rastello nel cuore di Gorizia, nell’ambito di GO!2025. Ma Ivan non si limita a esporre: lui semina, riflette, denuncia, costruisce connessioni. Quella che segue è l’intervista integrale, in forma scritta. Un viaggio tra paesaggi interiori, lingua madre, visione e responsabilità artistica.

Marilisa: Ivan, grazie per aver accettato il nostro invito. Iniziamo dal tuo legame con il Friuli. Non è solo il luogo in cui vivi, ma è il tuo paesaggio interiore?

Ivan Crico: Sono nato in una casa a poche decine di metri dall’argine dell’Isonzo, a Pieris, una delle ultime case del paese, al confine con un mondo selvaggio che mi chiamava — e al quale rispondevo ogni giorno con lunghissime camminate, spingendomi quasi fino alle foci del fiume. Sentivo, fin da bambino, che solo lasciando da parte ogni sovrastruttura, dimenticandomi di me stesso per potermi fondere con quel paesaggio, sarei riuscito a emanciparmi dalle gabbie interpretative in cui, come accade a ogni bambino, ero stato rinchiuso fin dalla nascita. Questi paesaggi sono dunque soprattutto interiori. Ma il luogo in cui sono nato è anche un paesaggio esteriore ricchissimo e variegato: in pochi chilometri si incontrano il mare, il fiume, il Carso, la pianura, le foci del Timavo — un fiume oscuro, misterioso. Questo paesaggio è diventato per me una porta, una soglia da cui accedere alla complessità del mondo. Ecco perché non mi sono mai accontentato di ciò che ci viene spacciato come vero, di ciò che crediamo certo. Non bisogna mai fidarsi della strada più breve o più comoda.

Marilisa: Scrivi in bisiaco, una lingua minoritaria che pochi conoscono davvero. Perché hai scelto – o forse dovremmo dire: perché ti ha scelto – questa lingua?

Ivan Crico: Ho iniziato a nominare le cose del mondo esclusivamente nella lingua di mia madre: la parlata bisiaca. L’ho assorbita vivendo con lei, con i suoi parenti, nel paese in cui sono nato. Fin dai primi giorni di vita, quella era l’unica lingua che conoscevo. Le prime parole in italiano le ho pronunciate soltanto quando sono andato alle scuole elementari, e per questo ho sempre percepito l’italiano come la mia seconda lingua. Sono arrivato alla scrittura in bisiac dopo aver letto le poesie friulane di Pasolini. Fu per me una vera e propria folgorazione ritrovare, in versi di così alta poesia, gli stessi termini che usavamo in casa. Da lì è nata la scelta di scrivere impiegando il linguaggio che avevo ascoltato fin da bambino: la lingua di mia madre, che proviene da una famiglia molto antica di Pieris, la cui presenza è attestata sin dall’epoca medievale. Ho avuto il privilegio di sentirla parlare il bisiac in una forma ancora molto ricca, solo in parte segnata dall’influenza dell’italiano e del triestino.

Marilisa: Cosa cambia, secondo te, nel dire le cose in bisiaco? Cosa può fare la poesia in una lingua fragile?

Ivan Crico: Nel mio caso, questo idioma così particolare mi aiuta profondamente: le sue parole, forgiate dal paesaggio e dal lavoro delle genti, sono per me una manifestazione sorgiva dell’essenza più autentica di questi luoghi. Proprio grazie alla sua ricchezza e varietà, mi permette di esprimere con maggiore precisione ciò che sento e penso, mentre mi muovo all’interno di questo mio mondo. Ogni lingua, del resto, possiede una sua nobiltà. E ogni poeta ha il compito di filtrarne, nel modo più intenso ed esatto possibile, la sua essenza.

Marilisa: Accanto alla parola, c’è la pittura. I tuoi quadri sono come poesie visive. Cosa ti spinge a unire questi due linguaggi?

Ivan Crico: Nel momento in cui sento il bisogno di comunicare qualcosa — di portare alla luce e dare forma a sensazioni, visioni o pensieri — non mi pongo alcun problema nel scegliere, di volta in volta, gli strumenti che mi sembrano più adatti per portare a termine questa urgenza espressiva. A volte sono le parole a imporsi, attraverso la poesia, la prosa o la riflessione critica. Altre volte, invece, è il silenzio del gesto a dominare: i colori che si dispongono sulla carta o sulla tela. Ma ho lavorato anche con altri linguaggi espressivi, più vari: dalla fotografia alla performance. Non voglio pormi limiti nel momento in cui sento la necessità di condividere qualcosa e strutturarla all’interno di una forma compiuta.

Marilisa: In via Rastello, a Gorizia, è stata aperta da poco una sala mostre dove stai esponendo in questo momento dei tuoi lavori. Che tipo di spazio è? E perché è stata scelta proprio quella via, così simbolica per la città?

Ivan Crico: Sono felice di poter contribuire, assieme all’artista Manuela Sedmach, allo sviluppo dell’associazione culturale QuiAltrove, vincitrice di un bando molto interessante volto alla rivitalizzazione di una storica via di Gorizia. Le attività che si stanno svolgendo in questo momento, all’interno della ricca proposta di GO!2025 – Gorizia/Nova Gorica, Capitale Europea della Cultura, hanno infatti bisogno di non restare semplici eventi estemporanei, ma di diventare semi: semi da piantare nel cuore della città, con uno sguardo rivolto al futuro. Per questo motivo anche la nostra mostra non è pensata solo come un’occasione per esporre dei lavori, ma come un progetto espositivo articolato, che comprende presentazioni di libri, performance musicali, letture poetiche. Tutto è nato dall’idea di un’arte che sia strumento di condivisione e di dialogo tra le persone.

Marilisa: Sei molto presente anche sui social, e non solo per parlare d’arte. Denunci con forza certe derive, certe ipocrisie del nostro tempo. È una forma di militanza artistica?

Ivan Crico: Ogni artista deve attraversare un lungo e silenzioso apprendistato interiore per affinare la propria attenzione, imparando a scorgere, anche negli aspetti più umili della realtà, paesaggi meravigliosi. Come si può, allora, non contrastare chi agisce in direzione opposta, perseguendo scopi meramente venali? Chi sceglie consapevolmente la semplificazione al posto della complessità, il bianco e nero al posto delle sfumature, creando confini tra gli esseri umani, dividendo le persone tra amici e nemici? È per questo che l’arte non può essere disgiunta da un impegno civile. Non avrebbe senso battersi per liberarsi da visioni preconcette e poi lasciarsi soggiogare da chi trae forza proprio da quelle stesse visioni.

Marilisa: L’arte, la lingua, l’impegno: tutto sembra intrecciarsi nel tuo lavoro. Cosa ti auguri che resti, un giorno, delle tue parole e dei tuoi colori?

Ivan Crico: Ho sempre inteso l’arte — fino a quando mi sono imbattuto nelle opere dei grandi maestri, da Leonardo a Bach — come un invito ad oltrepassare se stessi. Questo è ciò che spero possa trasparire dalle tracce di me stesso che sono le mie opere, se mai sopravviveranno nel tempo e raggiungeranno qualcun altro, in questo o in altri tempi, disposto, come me, a mettersi in gioco per vedere cosa può accadere nel momento in cui ci si avventura lungo le strade - prive sempre di ogni protezione - della ricerca.

Bruna Muzzolini Tomasini – La donna che ha creduto nella carta e nella memoria

Ci sono persone che passano nella vita di una città come venti forti e silenziosi: lasciano un segno, ma non fanno rumore. Bruna Muzzolini Tomasini è stata una di queste.

Il 27 luglio 1985, mentre Gorizia viveva il suo consueto torpore estivo, Bruna firmava l’atto costitutivo di una cooperativa che avrebbe dato origine a qualcosa di straordinario: il Centro Studi e Restauro Carta di Gorizia. Un laboratorio unico, che da allora si prende cura della memoria scritta, dei fogli dimenticati, dei documenti ammalati, dei libri segnati dal tempo e dalla Storia.

Bruna non era soltanto una restauratrice. Era una visionaria concreta. Aveva vissuto in prima persona l’alluvione di Firenze del 1966, lavorando tra i “ragazzi del fango” per salvare libri e codici ricoperti di melma. Aveva visto la carta morire. E rinascere. E aveva portato a Gorizia quell’energia fatta di pazienza, di mani in ascolto, di cura lenta. Ma non cercava seguaci. Cercava complici. Complici della memoria. Fu così che, durante un’assemblea scolastica al Max Fabiani, lanciò il suo appello a un gruppo di studenti. Non offriva un lavoro. Offriva una responsabilità. Un gesto. Un’eredità.

Tra quei ragazzi c’era Adriano Macchitella, oggi uno dei restauratori più esperti del Centro, che ha voluto raccontare questa storia in un’intervista che ho raccolto per il mio podcast Voci dal Confine. Non una celebrazione, ma un racconto vero. Di carta, di fango, di biscotti duri e colla d’amido. Di silenzi che insegnano più di mille parole. Ascoltando Adriano, si capisce che Bruna non ha fondato solo un centro di restauro. Ha fondato un modo di stare al mondo: delicato, tenace, resistente. Ha trasformato un’idea “impossibile” in un presidio di bellezza e rigore. Ha trasmesso una filosofia in cui ogni foglio salvato è anche un atto di amore civile.

A distanza di quarant’anni, il Centro Studi e Restauro Carta di Gorizia continua il suo lavoro in silenzio, ma con lo stesso sguardo lucido e rispettoso. E io sono grata di poter raccontare questa storia. Perché è una storia che ci riguarda tutti. Perché in fondo, anche noi, siamo fatti di carta, di segni, di strappi da ricucire.

Ascolta la puntata speciale di Voci dal Confine su youtube dedicata a Bruna e alla nascita del Centro. E se un giorno vi capita di passare davanti al laboratorio… in via Rabatta, fermatevi un attimo. Anche la carta, qui a Gorizia, ha un respiro. E qualcuno, grazie a Bruna, ha imparato ad ascoltarlo.

Osimo. La ferita, la strada e il confine che non c’è più

Per chi vive a Gorizia, certi nomi non suonano come altrove. Osimo, ad esempio. In molti la ricordano come una parola amara, il simbolo di una resa firmata lontano, quasi di nascosto. Per Trieste, fu la fine di un sogno nazionale. Per Gorizia, la cicatrice aperta nel fianco del Sabotino. Ma anche – col tempo – un varco.

Gli Accordi di Osimo vennero firmati il 10 novembre 1975, in una villa privata delle Marche. Niente Palazzi romani, niente comunicazioni ufficiali. Nessuna preparazione dell’opinione pubblica. Solo una firma, all’apparenza tecnica, che in realtà cambiava molte cose. Si trattava di due documenti: un Trattato che definiva definitivamente i confini tra Italia e Jugoslavia, e un Accordo per la cooperazione economica. Ma dietro la forma si nascondeva la sostanza: l’Italia rinunciava ufficialmente alla Zona B dell’ex Territorio Libero di Trieste. Una parte d’Istria che, fino ad allora, era amministrata dalla Jugoslavia ma senza un riconoscimento formale di sovranità.

Il Memorandum di Londra del 1954, infatti, aveva congelato la questione, lasciando aperta una speranza: che quell’amministrazione fosse solo temporanea. Gli esuli istriani ci avevano creduto. Anche lo Stato italiano, almeno in apparenza. Ma Osimo cambiò tutto. In silenzio, si chiudeva una pagina di storia. «Una dolorosa rinuncia», la chiamò Aldo Moro. Per altri, una vergogna, un tradimento.

Come racconta lo storico Roberto Spazzali, fu la realpolitik a prevalere: in piena Guerra Fredda, con gli USA ancora scossi dal Vietnam e dal Watergate, Tito – leader comunista ma non allineato al Patto di Varsavia – doveva essere “accompagnato” verso l’Occidente. Roma, in cambio della stabilità, cedette. Senza chiedere molto, forse nulla. Né risarcimenti adeguati agli esuli, né garanzie sulle infrastrutture che avrebbero potuto aiutare Trieste a superare la crisi industriale. Anzi, Capodistria divenne la nuova stella portuale. E le tutele alle minoranze, previste dal Memorandum, vennero spazzate via.

Ma a Gorizia, accanto alla ferita, ci fu anche un cambiamento fisico. Una strada. L’articolo 9 degli Accordi prevedeva espressamente la costruzione di un collegamento diretto tra il Collio sloveno e la valle dell’Isonzo, allora divisi da confini rigidi e orari doganali che spezzavano la vita quotidiana. Fino a quel momento, per raggiungere Nova Gorica bisognava allungare il percorso fino a Plava. Il nuovo tracciato, elaborato da una commissione mista italo-jugoslava e finanziato da entrambi i Paesi, venne costruito proprio lungo il versante del Sabotino. Nel 1978, l’Italia stanziò oltre un miliardo e mezzo di lire per il suo tratto. Una strada che divenne presto qualcosa di più: un simbolo di continuità, uno squarcio nel confine, una finestra da cui guardare l’altro.

Certo, ci vollero anni perché le due città – Nova Gorica e Gorizia – si riconoscessero parte di uno stesso destino. Eppure quella strada, nata da un accordo controverso, oggi è percorsa da chi lavora, da chi va in bici, da chi ha dimenticato, o forse elaborato, quella pagina di storia.

Oggi Nova Gorica e Gorizia sono Capitale Europea della Cultura 2025. E proprio lì, sulla linea che un tempo separava, si costruisce una nuova narrazione comune. Palcoscenici condivisi, eventi transfrontalieri, piazze ibride, installazioni che sfumano i bordi. Un’occasione per ripensare la storia e riconoscere che l’Europa vera nasce dove si imparano a vivere i margini. Dove ogni ferita può diventare soglia. E anche un trattato iniquo può, col tempo, diventare le fondamenta di un ponte.

Un approfondimento o, meglio ancora, un punto di vista è disponibile in questa pagina.

Italiani e sloveni a Gorizia: Una storia di convivenza e memoria

Gorizia non è una città qualsiasi. È una terra sospesa, un luogo dove culture diverse si sfiorano, si incontrano, a volte si scontrano. Italiani e sloveni convivono qui da generazioni, condividendo spazi, commerci, passioni e anche tensioni. È un rapporto dinamico e complesso, che racconta tanto di cooperazione e amicizia quanto di diffidenza e incomprensioni.

Raoul Pupo, storico e attento osservatore del confine orientale italiano, in un approfondimento pubblicato sul quotidiano "Il Piccolo" il 12 giugno 2025, evidenzia come le tracce del passato siano ancora vive e forti. A partire dagli anni ’60 dell’800, scrive Pupo, Trieste si era definita – per bocca della sua classe dirigente – prima città italiana e poi città italianissima e irredenta, proiettando tale immagine anche all’indietro nei secoli e finendo per diventare il simbolo stesso dell’identità nazionale ai tempi della Grande guerra, combattuta proprio per lei e per Trento. Ma il 1° maggio del 1945 questa narrazione si interrompe bruscamente, per lasciar spazio a un’altra storia: quella di Trieste come polmone della Slovenia, simbolo del riscatto degli slavi del sud oppressi dal fascismo, della rivincita dello Stato jugoslavo aggredito e sbranato da Mussolini e da Hitler, della conquista del cielo da parte di una classe operaia che alla patria del Risorgimento preferisce quella del socialismo. Un rovesciamento sconvolgente, aggravato dai modi in cui è avvenuto: attraverso un vero e proprio bagno di sangue.

Quella che si è abbattuta sul colle di San Giusto – continua Pupo – è l’onda di una rivoluzione, in cui antagonismi nazionali e sociali si fondono. E le rivoluzioni si fanno con il terrore. Le autorità comuniste jugoslave, in tutta la Venezia Giulia, usarono il pugno di ferro contro i loro avversari. L'occupazione jugoslava del 1945, gli esodi e le dolorose divisioni politiche hanno segnato indelebilmente le comunità locali, lasciando ferite che, in qualche misura, sono ancora aperte.

Kaja Širok, storica e museologa slovena, già direttrice del progetto GO!2025, aggiunge un tassello fondamentale a questa riflessione nel suo saggio "La fragilità della memoria", pubblicato sulla rivista "Qualestoria" nel giugno 2016. Širok ci spiega che la memoria collettiva non è un semplice ricordo: è una narrazione potente, costruita su storie familiari, emozioni profonde e percezioni soggettive. La storia della frontiera orientale italiana, e del suo versante sloveno occidentale, è una storia complessa e difficile da spiegare: lapidi e monumenti, vie e piazze, città multiculturali con rivalità interne e diverse interpretazioni del passato, manifestazioni territoriali e scelte identitarie, ricordi personali e memorie collettive. Quasi sempre le interpretazioni hanno radici familiari, cariche di emozioni trasmesse da nonni a nipoti: storie di sopravvivenza e protezione dei confini dello spazio e delle comunità. Il modo in cui le memorie sono collegate a eventi passati riflette l’appartenenza individuale che si costruisce nel modo in cui i gruppi diversi ricordano e mantengono le loro rappresentazioni del passato. Questa memoria, come una mappa mentale, influenza il presente e guida le aspettative per il futuro, mantenendo spesso vivi stereotipi e divisioni.

Tuttavia, qualcosa sta cambiando. Dal 2004, con l'abbattimento della frontiera fisica, italiani e sloveni si incontrano sempre di più. Associazioni culturali transfrontaliere e festival condivisi, come Gusti di Frontiera, mostrano il lato migliore di questa convivenza, evidenziando quanto la diversità possa essere una risorsa e una ricchezza.

E ora, con Gorizia e Nova Gorica, Capitali Europee della Cultura nel 2025, si apre una nuova grande occasione: quella di superare finalmente il confine più ostinato, quello che ciascuno di noi porta dentro sé stesso. Una sfida che, forse per la prima volta, potrà trasformare la convivenza tra italiani e sloveni da semplice vicinanza a un vero incontro.

A casa Ascoli una mostra imperdibile. Gorizia: cinque lingue, una città

A Gorizia, in via Ascoli 1, nella sede della Società Filologica Friulana, è visitabile una mostra piccola ma preziosa. Racconta una storia che pochi conoscono davvero: quella di una città dove, in una sola strada, si potevano sentire cinque lingue diverse – l’italiano, il tedesco, lo sloveno, il friulano e l’ebraico. Questa era, per secoli, la normalità a Gorizia. Una città di confine, sì, ma anche un crocevia culturale unico in Europa.

Il nome stesso della città, di origine slava, compare per la prima volta nel 1001, in un documento imperiale. Da allora Gorizia ha intrecciato popoli, idiomi, religioni. Non solo convivevano: si parlavano, si ascoltavano. La Chiesa locale predicava regolarmente in quattro lingue, e il Seminario Teologico Centrale – fondato nel 1818 – formava appositamente il clero per servire comunità multilingui. Anche la nobiltà si muoveva tra più mondi: famiglie italiane, tedesche, slovene che parlavano quattro o cinque lingue e ricevevano incarichi diplomatici per la loro capacità di “abitare” il confine.

E poi c’era la letteratura: in friulano, più di seicento opere dal Cinquecento a oggi. In sloveno, la voce potente di Alojz Gradnik, che tradusse Dante. In tedesco, gli scritti di Otto von Leitgeb, primo autore a raccontare il Friuli in quella lingua. Ma tutto questo subì una drammatica cesura nel Novecento. Il fascismo vietò l’uso pubblico delle lingue diverse dall’italiano. E nel 1947, il nuovo confine tagliò in due la città, dividendo famiglie, storie, memorie. Fu una ferita profonda.

Eppure Gorizia ha continuato, silenziosamente, a conservare il seme della sua pluralità. Come scriveva lo storico Sergio Tavano, il Goriziano è una “somma inestricabile di componenti”. Non è solo questione di lingue diverse che coesistono, ma di un’identità complessa, fluida, stratificata. Una città europea prima ancora che l’Europa esistesse, come ricordava Graziadio Isaia Ascoli. Non semplicemente “austriaci” o “italiani”: europei. Questa mostra, che consiglio davvero di visitare, non è solo un racconto del passato. È un invito a guardare Gorizia con occhi nuovi. A riscoprire la sua anima plurale in un momento storico in cui la convivenza sembra sempre più difficile. Perché, come ci insegna la storia di questa città, la diversità non è un ostacolo. È una ricchezza da custodire, da raccontare, da vivere.

P.S.: La mostra alla Filologica Friulana in via Ascoli 1 è aperta al pubblico e merita davvero una visita. Ci sono pannelli, documenti, libri e storie che raccontano un’altra Gorizia – più profonda, più vera. Io ci sono stata, e ne sono uscita con una domanda in testa: E se il futuro passasse proprio da qui, da una città che ha saputo far dialogare le differenze?

Liubina Debeni voce del verde e della memoria

Ci sono conversazioni che non sembrano interviste. Sembrano passeggiate. Magari la domenica mattina, quando la città dorme ancora e il silenzio permette ai pensieri di sbocciare piano. Così è stato l’ incontro con Liubina Debeni, che a Gorizia tutti conoscono per la sua voce mite e il suo sguardo attento, per i libri che conserva e per i giardini che racconta.

Ho scelto di intervistarla per il podcast Voci dal confine perché penso che il suo lavoro per la città — discreto ma prezioso — meriti visibilità e gratitudine. Il premio San Rocco è un riconoscimento autorevole, certo. Ma le targhe si impolverano, le parole no. Raccontare la sua storia è un modo per farla vivere, per trasformare la memoria in coscienza collettiva.

Io la chiamavo Violetta, da bambina. Giocavamo in Piazzutta, tra le case basse, le risa leggere e una quotidianità che aveva ancora il sapore delle cose semplici. Oggi la ritrovo così, custode di radici — vere e simboliche — capace di legare memoria e paesaggio con la stessa cura con cui si sistema un mazzo di fiori. «Quando si è bambini» — mi racconta — «il mondo è la propria casa e il cortile, soprattutto se si è femmine. Poi pian piano si allarga: il rione, la città, la periferia... Ogni rione è un microcosmo, un primo luogo di aggregazione. Piazzutta è uno dei più antichi borghi della città. Forse da lì è nata la mia curiosità per la storia locale, una passione che non mi ha mai lasciata.» Liubina non ha mai lasciato davvero Gorizia, nemmeno nei pensieri. Le sue radici sono lì, anche nella bottega di fiori dei suoi genitori, un negozio che per lei era un mondo intero.

«I miei genitori erano fiorai già prima di sposarsi. Dopo il matrimonio hanno deciso di aprire un’attività tutta loro. Sono cresciuta circondata dai fiori, imparando a riconoscerli, ad amarli. Ogni stagione aveva un suo profumo: il calicanto d’inverno, le violette di primavera, le tuberose per i mazzi da sposa, l’alloro per le ghirlande del 4 novembre… Ma ricordo anche i momenti più tristi: quando bisognava confezionare ghirlande con fiori bianchi per un giovane che se n’era andato troppo presto.» Poi la scuola, l’insegnamento. Liubina è stata maestra d’infanzia, di quelle che insegnano più a cercare che a trovare. «Essere insegnanti è una responsabilità grande, anche con i più piccoli. Il compito non è solo trasmettere sapere, ma accendere il desiderio di imparare. È quello che ho cercato di fare, e che ancora oggi provo a fare con i miei studi su Gorizia.»

Da anni, infatti, Liubina collabora con Italia Nostra, l’associazione che tutela il patrimonio culturale e naturale. «Mi sono iscritta perché condividevo i loro obiettivi. Dal 2003 sono nel direttivo della sezione di Gorizia, fondata nel 1969 grazie al conte Guglielmo Coronini. Ho sentito subito il bisogno di salvare e mettere ordine nei materiali della sezione: libri, riviste, documenti... Ho raccolto migliaia di volumi, ho creato un sistema di catalogazione tutto nostro, fuori dai grandi circuiti, ma efficace. La biblioteca è diventata un luogo vivo, consultabile da chiunque voglia conoscere meglio la nostra città.»

Nel frattempo Liubina ha continuato a studiare e scrivere. Dal vivaismo goriziano ottocentesco alla storia dei giardini, dai personaggi locali alla botanica urbana. Un lavoro silenzioso, ma prezioso. «Gorizia è sempre stata una città verde. Non è un caso: il clima, la posizione tra colline e pianura, la cultura diffusa del verde privato e pubblico... Già nell’Ottocento esistevano stabilimenti di floricoltura noti anche oltre confine. A me piacciono tutti gli angoli verdi, ma il mio cuore va al Parco Coronini. Da ragazza ci passavo ogni mattina per andare a scuola. Attraversavo via Scala, passavo accanto a una grata che mi metteva soggezione — sembrava una prigione — poi entravo nel cortile del palazzo. Quegli alberi, quegli angoli ombrosi, mi hanno sempre parlato.»

Non tutto però è rimasto intatto. «La città storica è più o meno quella dei miei ricordi. Ma le periferie sono cresciute, e i negozi, le botteghe, stanno sparendo. Troppe serrande chiuse. E c’è un certo lassismo, un’incuria del quotidiano che mi dispiace. Perché Gorizia è la mia città, lo è stata fin da bambina, e vorrei che fosse amata come merita.» Non è nostalgia. È amore attivo. Lo si capisce quando parla degli alberi, come se li conoscesse uno ad uno. «Le piante non parlano, ma si fanno capire. Ti dicono quando hanno sete, quando soffrono. Crescono meglio se sono vicine, come noi. Trasmettono energia positiva.

Dal 2020 scrivo su “Gorizia News & Views” una rubrica: ogni mese, un albero cittadino. È un modo per osservare, per camminare con attenzione. Invito tutti a farlo, magari la domenica mattina presto: si scoprono angoli nuovi, che la fretta nasconde.» Liubina cammina tra le stagioni come si cammina tra le pagine di un libro. E alla fine le chiedo: se potessi lasciare un’eredità verde, quale sarebbe? Sorride. «Una città vivibile. Dove si può convivere nel rispetto reciproco e in armonia con la natura. E, se devo lasciare un segno, allora pianto una violetta. È la pianta della mia infanzia, del mio soprannome. E un po’ anche del mio carattere.»

Gorizia XXL – Una città, due lingue, un confine che si apre

Riflessioni attorno all’idea di una Gorizia transfrontaliera. Negli anni in cui la parola “confine” evocava ancora separazione, diffidenza, linee invalicabili sulle mappe e nelle menti, Isonzo–Soča ha scelto la strada del dialogo. Della doppia voce. Del bilinguismo come orizzonte culturale. Una scelta editoriale che è diventata – grazie anche al lavoro di Dario Stasi e oggi di Andrea Bellavite – un principio identitario.

All’interno di questa visione plurale si inserisce con forza la proposta di Guido Germano Pettarin, da anni convinto sostenitore di una Gorizia “XXL”, finalmente riunita con Nova Gorica in un’unica entità urbana, culturale e – auspicabilmente – anche amministrativa. La sua è una visione forte, ottimista, programmatica. Una visione che poggia su basi storiche e simboliche, ma anche su proposte concrete: trasporti unificati, teleriscaldamento condiviso, una regia europea per affrontare le disparità fiscali e salariali, una progettualità comune per il commercio e la cultura. Eppure, qualche dubbio resta.

Davvero – mi chiedo – chi vive da una parte e dall’altra del confine si sente già parte di una stessa comunità? Pettarin sostiene di sì, almeno per le generazioni più giovani. L’inglese, dice, è la nuova lingua franca che abbatte i muri. Gli anziani, invece, portano ancora ferite aperte, e non si può che comprendere il peso delle storie familiari. Ma basterà l’inglese – mi chiedo – a tener viva la memoria plurilingue di questo territorio? Pettarin risponde che le lingue storiche non devono essere sostituite, ma integrate: friulano, sloveno, italiano, tedesco… e perché no, anche l’ebraico. Un mosaico da ricomporre.

Certo, la Capitale europea della cultura 2025 ha dato una spinta decisiva. Ma cosa accadrà dopo? Pettarin è chiaro anche qui: “Go!2025 è un trampolino, non un traguardo”. Sta a noi non disperdere l’energia, non ridurre tutto a una “bellissima e costosissima festa di paese”. La sfida è quella di proiettarsi al 2055, non di fermarsi al 2025.

È una visione che entusiasma, ma che solleva anche domande. Come coinvolgere davvero chi la città la abita giorno per giorno? Come evitare che questo futuro, immaginato con passione, escluda chi ha uno sguardo più cauto, o semplicemente diverso? Pettarin non teme il confronto. Anzi, lo reclama. Con franchezza. Con qualche spigolo. Perché – dice – oggi ogni luogo di cultura dovrebbe tornare a essere un agone di discussione. I cineforum sono spariti, i partiti sono diventati comitati elettorali, i social offrono solo superficie. Ma proprio per questo, forse, ogni spazio è buono per riprendere a parlare davvero. Di città. Di identità. Di futuro.

Come sempre, più che una sintesi definitiva, queste righe vogliono essere un invito al confronto, alla partecipazione, alla costruzione paziente e collettiva di un orizzonte comune. Perché ogni città – e a maggior ragione una città di confine – è fatta di voci che si incontrano, si intrecciano, si ascoltano.

Se vuoi, puoi lasciare un commento qui sotto. Anche questo è un modo per continuare il dialogo. .