Alma e il confine: quando la memoria non è una bandiera

Durante le presentazioni del mio libro Donne tra due mondi c’è una domanda che ritorna spesso: qual è il personaggio che senti più vicino a te?

Non ho mai avuto dubbi nella risposta: Alma. Perché alla sua età ero mossa dalla stessa passione, dallo stesso bisogno di giustizia, dalla stessa urgenza di scegliere. E so bene che, se mi fossi trovata in quel tempo e in quel luogo, probabilmente avrei fatto la sua stessa scelta.

Il confine orientale non è mai stato un luogo semplice. Tra il Friuli orientale, il Carso e la valle dell’Isonzo, la Resistenza non fu un racconto lineare, ma un intreccio di visioni diverse, spesso inconciliabili. Brigate autonome, partigiani cattolici della Osoppo, garibaldini comunisti della Brigata Garibaldi “Natisone”: mondi che combattevano lo stesso nemico, ma immaginavano futuri differenti.

In questo scenario si muove Alma. Diciassette anni, fazzoletto rosso al collo, figlia di una famiglia povera ma antifascista. Alma sceglie la Garibaldi “Natisone” e con essa la collaborazione con i partigiani jugoslavi. Non per rinnegare l’Italia, ma per inseguire un’idea: una giustizia che valesse più delle frontiere. Una scelta che, nel tempo, l’avrebbe resa scomoda. Non eroina ufficiale, non vittima riconosciuta. Una donna che ha abitato le zone grigie della storia, quelle che fanno fatica a entrare nelle celebrazioni. Ed è proprio qui che la storia di Alma incrocia il presente.

Ogni anno, il 19 gennaio, tornano le commemorazioni legate alla Xª Flottiglia MAS, spesso presentata come simbolo di “difesa della patria” sul confine orientale. Una narrazione che insiste sulla Battaglia di Tarnova della Selva, raccontata come l’episodio che avrebbe “salvato Gorizia”. Ma la storiografia più solida ci dice altro. Tarnova fu una battaglia dura, combattuta in condizioni estreme, ma non decisiva. Gorizia venne occupata dai partigiani jugoslavi il 1º maggio 1945 e restituita all’Italia poco più di un mese dopo. La presenza della Xª MAS nell’area, sotto diretto controllo tedesco nel contesto dell’Adriatisches Küstenland, fu segnata soprattutto da operazioni di repressione antipartigiana e violenze contro la popolazione civile. Tanto che persino le autorità tedesche ne misero in discussione l’efficacia. Celebrarla oggi senza questo contesto non è memoria: è semplificazione.

La storia di Alma sta dall’altra parte di quella semplificazione. Lei vede i marò da lontano, tra i boschi e la neve. Non li mitizza. Non li demonizza. Sa solo che la “salvezza” non passa dai fucili puntati sui civili. Quando scende a Gorizia il 1º maggio con i volantini bilingui, lo fa a mani nude. E quando torna a casa, scopre che la frattura più profonda non è quella del confine, ma quella dentro le famiglie, dentro le parole non dette. Dopo la guerra, Alma conosce anche il disincanto: le purghe, gli arresti, la fine del sogno jugoslavo così come lo aveva immaginato. Non rinnega, ma comprende. Resta ai margini. Senza medaglie. Con molti silenzi.

Raccontare Alma oggi significa fare una scelta precisa: non usare la storia come una bandiera, ma come uno spazio di confronto. Significa accettare che sul confine orientale la Resistenza fu anche una guerra di idee, e che ridurla a un racconto eroico a senso unico – da qualunque parte – è un tradimento della sua complessità. Forse è questo che rende ancora scomoda la sua storia. La patria di Alma non era una divisa, né una celebrazione. Era un’idea. E con le idee, soprattutto sul confine, bisogna avere il coraggio di fare i conti.

Il libro Donne tra due mondi – Storie sul confine goriziano è disponibile:

– nelle librerie di Gorizia

– sul sito dell’editore MGS Press

– e sulle principali piattaforme online specializzate

Un modo per continuare a interrogarsi su una storia che non chiede adesioni, ma attenzione.

Scripta manent: una serata, tante voci, un unico grazie

Sono qui, distesa sul divano con il notebook sulle ginocchia e il fuoco del caminetto che mi fa compagnia come un vecchio amico. Ho nelle orecchie le cuffiette magiche che mi ha consigliato Roberto—quelle che ormai dimentico di togliere, finché una voce cinese non decide di rimproverarmi all’improvviso. Un piccolo spavento, un grande sorriso.

Spotify intanto mi manda una playlist di canzoni italiane degli anni Sessanta. E mentre le note scorrono, mi si stringe qualcosa dentro. È come se le dita della memoria mi accarezzassero la spalla. Rivedo me stessa ragazzina, ingenua e convinta che il mondo fosse tutto rosa. Poi ho scoperto che non proprio… ma le canzoni sì, quelle non mi hanno mai tradita.

Scrivo questo post perché ieri sera, all’agriturismo Brumat, nella serata organizzata per l'ennesima presentazione del mio "Donne tra due mondi" ho avuto una delle sorprese più dolci degli ultimi tempi: l'iniziativa si è trasformata in una serata che non avrei mai osato immaginare così bella. E ne scrivo qui, sul blog, perché desidero che tutto questo resti. Che rimanga nella memoria, nero su bianco, perché — diciamolo — scripta manent, verba volant. E a volte è bello trattenere un frammento di felicità, prima che voli via.

E voglio ringraziarvi. Pubblicamente. Con il cuore in mano.

Ero convinta che sarebbe stata una cena intima, che avrebbero partecipato solo gli amici che il libro l’avevano già preso. E invece no. La sala era piena, pienissima. E soprattutto era piena di vita.

C’erano le amiche che non avevo potuto vedere il giorno del mio compleanno, quel compleanno rimandato dal mio infortunio—questo gesso che ancora mi costringe a rallentare i passi e a rinviare lo spettacolo su Antonio Bonne. Sono arrivate con i loro regali, con i loro sorrisi, con quella presenza che vale più di mille parole.

C’era la mia vicina di casa, quella che stresso sempre per via del muro di recinzione da sistemare. C’era Elisabetta—non Simonetta!—la restauratrice più brava della regione (o forse d’Italia). C’erano Gabry e Paolo, complici perfetti di tartufi, pesce, musica e politica. E l'altro Paolo che con la sua chitarra ha dato anima ai monologhi di Lucia ed Edy, facendo rivivere Caterina, il vigile del mercato e Zita, la mia Zita raccoglitrice di erbe.

C’era Antonella, che avrebbe dovuto conversare con me durante la presentazione… e che invece ho travolto, come sempre, perché quando parto non mi fermo più. Ma il suo sorriso, credetemi, è stato più eloquente di qualsiasi domanda. E poi Sandra e Gianfranco, amici nuovi ma già cari. Gianfranco, che ha un dono raro: scrivere le emozioni con una delicatezza che arriva dove le parole di tutti gli altri non arrivano. E suo cognato Paolo, onnipresente nelle iniziative culturali della città—che io, sinceramente, non so come faccia a essere ovunque. Infine Patrizia. La perfezionista. La donna che ha girato il mondo per la cooperazione internazionale e che da mesi mi promette una chiacchierata che aspetto come si aspetta un tè con una vecchia amica. Lei, peraltro, ha un compito difficile, lo sa bene: aiutarmi a ritrovare la mia anima friulana. Missione possibile? Chissà. Ma se c’è qualcuno che può farcela, è lei.

E poi c’è lei: Stefania, la figlia di Valentina, che ieri sera ha gestito la sala con l’efficienza e l’eleganza di un vecchio maître navigato. E invece è solo una ragazzina — ma di quelle che fanno sentire orgogliosa una madre. Brillante a scuola, determinata, attenta ai dettagli. Le ho persino suggerito di studiare economia, perché un giorno possa valorizzare fino in fondo l’attività di famiglia. Una piccola imprenditrice in fieri, con i fiocchi.

E, naturalmente, non posso dimenticare Leonarda e Adriano, gli architetti ai quali mi affido sempre quando si tratta di scegliere una casa, un colore, un dettaglio che farà la differenza. Leonarda con il suo occhio sicuro e la sua calma preziosa; Adriano — il mio “cugino mancato” — con quella sensibilità estetica che ti fa venir voglia di rifare ogni stanza da capo. Averli lì, ieri sera, è stato come avere due fari accesi nella sala.

E se non ho citato tutti, non è certo perché vi abbia dimenticati: è che se iniziavo l’elenco completo diventava un testamento… e io ho tutta l’intenzione di vivere almeno fino a centovent’anni. Ci saranno tante, tantissime altre occasioni per nominarvi — e abbracciarvi.

Ecco perché scrivo. Per dire grazie. Per dire che, nonostante il gesso, nonostante la fatica, nonostante la vita che a volte inciampa… ci sono serate che ripagano tutto. Serate che ti ricordano che non sei sola. Che stai costruendo qualcosa che parla alle persone. Che le parole, quando sono condivise, diventano casa.

Ieri sera, quella casa eravate voi.

L’annuncio che aspettavo di darvi: l’8 dicembre si accende il palco

Stamattina mi sono svegliata con una voglia irresistibile di musica “da boomer”. Avete presente quei momenti in cui il mondo ti chiede dolcezza? E allora ho infilato le mie mitiche cuffiette-orecchino — sì, proprio quelle consigliate dall’amico Roberto, che mi hanno cambiato la vita. Le cuffie normali mi irritano le orecchie, gli auricolari da computer mi tengono prigioniera alla scrivania… mentre con queste posso girare per casa libera come l’aria, con Spotify che mi sorprende ogni volta con playlist che non avrei mai saputo mettere insieme da sola.

La giornata è iniziata nel migliore dei modi: ho dormito benissimo. Quando ho guardato l’orologio erano già le otto passate, ma non avevo nessuna fretta di alzarmi. Mi sono goduta quel momento sospeso, telefono alla mano, e ho cercato il link del nuovo episodio del podcast, salito su YouTube nella notte. Poi via, il post su Facebook per annunciarlo e, subito dopo, il messaggio agli amici su WhatsApp — ormai è una piccola tradizione mattutina, e stamattina mi ha fatto ridere Romano che, scherzando, ha preannunciato imminenti proteste dalla redazione di Vita nei campi.

Insomma: umore ottimo, cielo chiaro, e una voglia matta di condividere qualcosa di bello.

Prima di uscire per andare alla drogheria di Cormons — che, dopo la mia lunga latitanza, mi ha fatto trovare un messaggio con uno sconto del 20% quasi come un “torna presto!” — ho deciso di scrivervi questo post. Perché c’è una cosa che mi sta a cuore, una cosa da segnare subito in agenda.

L’8 dicembre. Ore 18.30. Sala Incontro di San Rocco.

Sì, è vero: l’8 dicembre è il mio compleanno. E quest’anno ho deciso di festeggiarlo in modo decisamente atipico. I 60 li avevo celebrati con una super mega festa, i 70 sono capitati in pieno Covid e sono volati via quasi in sordina… e a dire il vero non so dove sarò agli 80. Quindi i 75 meritano un segno, un gesto, qualcosa che resti.

E allora ho scelto di farmi — e farvi — un regalo speciale.

Ieri sera ho finito la sinossi di uno spettacolo, anzi: di un monologo teatrale che completa il libretto di scena di un progetto a cui tengo da morire. Il titolo è tenerissimo, e forse racconta già tutto:

Antonio Bonne

Un uomo perbene

Cronaca di un sindaco dimenticato

Raccontata dalla moglie Petronilla

(interpretata da Lucia Calandra, che darà voce e cuore a questa storia).

Non vi anticipo altro, perché certi racconti hanno bisogno della loro magia.

Posso solo dire questo: Gorizia mi ha dato moltissimo. È stata, per me, una madre severa e generosa, una città che ti insegna la storia solo camminando per strada, guardando i muri, ascoltando gli anziani. E quando un luogo ti dà così tanto, senti — nel profondo — il bisogno di restituire qualcosa. Anche un piccolo frammento. Anche una storia dimenticata che merita di essere riascoltata.

Ed è quello che voglio fare l’8 dicembre: regalare a Gorizia un pezzo della sua memoria.

Segnatelo in agenda, amici: Lunedì 8 dicembre, ore 18.30, Sala Incontro San Rocco.

Vi aspetto con gioia e — lasciatemelo dire — con un filo d’emozione. Buona domenica a tutti.

Margherita Kaiser Parodi. L’infermiera che non si spostò mai dal suo posto

Chi si avvicina alla storia della Grande Guerra incontra spesso per prima la vicenda di Lucy Christalnigg, una donna che divenne suo malgrado uno dei simboli iniziali del conflitto. Era il 10 agosto 1914 e, mentre percorriva la strada verso Gorizia, non si fermò all’alt intimato dai gendarmi austriaci. Le dinamiche esatte restano in parte oscure – forse non comprese l’ordine, forse non valutò la rapidità con cui la tensione si stava trasformando in allarme permanente –, ma il risultato fu immediato: i soldati spararono e la sua vita si interruppe bruscamente. La sua morte, restituita nel dettaglio anche grazie al lavoro di un suo discendente, Nello Cristanini, segnò uno dei primi punti fermi del conflitto sul territorio isontino, un evento che attirò l’attenzione perché condensava in pochi istanti lo smarrimento, la paura e la mancanza di controllo dei primi giorni di guerra. Lucy, così, aprì il conflitto con una vicenda netta, drammatica, facilmente riconoscibile.

Ma la guerra non è fatta solo di episodi che si impongono all’istante; è fatta anche – e forse soprattutto – di percorsi più silenziosi, più costanti, più profondi, che non hanno un punto esatto in cui iniziano a essere ricordati e uno in cui finiscono. In questa zona meno spettacolare ma più densa della storia si trova la vita di Margherita Kaiser Parodi, il cui nome non compare nelle prime pagine dei manuali ma attraversa la guerra in modo continuo, discreto e decisivo. Per capire chi fosse, occorre partire dalle radici.

Margherita nacque a Roma il 16 maggio 1897, in una famiglia in cui l’idea di responsabilità civile non era un ornamento ma un tratto caratteriale. Il padre, Giuseppe Kaiser, era un livornese di origini tedesche, uomo ordinato, legato a un senso rigoroso del lavoro e del dovere. La madre, Maria Orlando, proveniva da una delle famiglie che avevano partecipato alla costruzione dell’Italia unita: suo padre, Luigi Orlando, era stato ingegnere navale, figura di spicco della Giovine Italia, sostenitore di Giuseppe Garibaldi e senatore del Regno d’Italia tra il 1890 e il 1892. Morì un anno prima della nascita di Margherita, ma la sua presenza ideale restò viva in casa, in racconti, riferimenti, ricordi. In un contesto del genere, crescere significava sviluppare un senso del Paese non retorico ma quotidiano, una naturale predisposizione a considerare la partecipazione come parte integrante della vita adulta.

Quando l’Italia entrò in guerra nel 1915, la risposta della famiglia fu sorprendente e lineare insieme: non si arruolò solo Margherita, che aveva diciott’anni, ma anche sua madre e sua sorella. Tutte e tre si offrirono come infermiere volontarie della Croce Rossa Italiana. Non era un gesto simbolico, era una scelta concreta che rispecchiava un modo di essere: se c’è bisogno, si va. Per Margherita, che fino a quel momento aveva conosciuto una vita ordinata fatta di studio e responsabilità familiari, fu un passaggio netto verso un mondo completamente diverso.

Fu assegnata alla Terza Armata e iniziò a operare negli ospedali mobili di Pieris, Medea e lungo l’area del Carso. Gli ospedali mobili erano strutture provvisorie, spesso tende montate su terreni instabili, baracche che si spostavano in base all’avanzamento o alla ritirata della linea del fronte. Non c’era nulla di romantico in quei luoghi: l’odore del disinfettante si mescolava a quello del fango, le lampade tremolavano, l’acqua mancava, i feriti arrivavano senza sosta. In questo ambiente la cura aveva una dimensione soprattutto manuale, fatta di gesti ripetitivi, precisi, necessari. Le bende erano la materia prima del lavoro: si tagliavano, si arrotolavano, si stringevano, si cambiavano in continuazione, spesso mentre i colpi del cannone scuotevano le pareti della tenda. Margherita imparò rapidamente a usarle con competenza e sicurezza. Chi la vide in azione la descrisse come una presenza concentrata, solida, capace di mantenere calma e lucidità anche in condizioni estreme.

Nel maggio 1917, all’Ospedale Mobile n. 2 di Pieris, un bombardamento colpì così vicino da far oscillare la struttura come se dovesse crollare. Le lampade sballottavano nel vuoto, i ferri tintinnavano contro i tavoli e parte del personale cercò riparo. Alcuni soldati, nel panico, tentarono di alzarsi dalle brande nonostante le ferite. Margherita rimase al suo posto. Non fece un passo indietro, non interruppe il suo lavoro, non cercò un rifugio. Continuò a fasciare i feriti, a sostenere chi non riusciva a respirare, a rimettere ordine nelle lenzuola, a calmare chi si agitava più per la paura che per il dolore. Il bombardamento era il rumore di fondo; il suo primo piano era fatto di uomini che cercavano di restare vivi. Quando il fragore cessò, era ancora in piedi accanto ai feriti, nel punto esatto in cui era al momento della prima esplosione. Per questo comportamento le venne conferita la Medaglia di Bronzo al Valor Militare, una decorazione che non premiava un gesto isolato ma una disposizione d’animo costante: essere lì dove serviva, senza esitazione.

L’armistizio dell’11 novembre 1918 fu un sollievo pubblico ma non cambiò immediatamente il destino di chi lavorava negli ospedali. A Trieste, dove Margherita venne trasferita, le corsie erano ancora piene di uomini indeboliti dalla guerra, e in quel momento esplose con particolare violenza l’ondata della febbre spagnola. La malattia colpiva rapidamente e senza distinzione; chi lavorava vicino ai malati ne respirava l’aria in continuazione. Margherita continuò a svolgere il proprio servizio come aveva sempre fatto, senza distanze, senza protezioni adeguate, senza sottrarsi. Fu proprio in reparto che contrasse l’infezione. La febbre salì in modo improvviso e violento e non le lasciò scampo. Morì il 1º dicembre 1918, a ventun anni, poche settimane dopo la fine ufficiale della guerra.

Fu sepolta al Cimitero degli Invitti della Terza Armata, sul Colle di Sant’Elia. Sul luogo della sua prima inumazione si trova ancora una lapide con un epitaffio che condensa la percezione che i colleghi e i superiori avevano avuto di lei: “A noi, tra bende, fosti di Carità l’Ancella, Morte fra noi ti colse. Resta con noi sorella.” È una frase che non indulge nella retorica ma racconta in modo diretto ciò che era stata: una presenza costante, affidabile, radicata nel lavoro più difficile.

Quando venne costruito il Sacrario militare di Redipuglia, le sue spoglie furono trasferite lì e collocate dietro la grande lapide centrale del primo gradone, immediatamente dietro la tomba del Duca d’Aosta, comandante della Terza Armata. Non fu una collocazione casuale né ornamentale: Margherita faceva parte di quell’armata e lì, simbolicamente, le venne assegnato un posto che riconosceva il suo ruolo. La sua lapide recita semplicemente: “16-V-1897 / 1-XII-1918 / Margherita Kaiser Parodi / Infermiera volontaria C.R.I. / Medaglia di Bronzo.”

Ogni anno, l’8 marzo, il Comune di Fogliano Redipuglia depone un mazzo di fiori sulla sua tomba, mantenendo vivo un gesto che non cerca clamore ma continuità. È un modo discreto e concreto per ricordare una giovane donna che attraversò la guerra intera senza mai spostarsi dal punto dove serviva che fosse.

La figura di Margherita è stata ricordata anche dal Presidente Mattarella in occasione della cerimonia che si è svolta a Trieste a ricordo della cessazione della prima guerra mondiale. 

Antonio Bonne il sindaco dimenticato di Gorizia

“La storia non sempre premia chi ha servito con onestà. Ma la memoria, quando torna a fiorire, ha una forza silenziosa e tenace.”

Ci sono persone che scompaiono dalle pagine della storia, come se la memoria collettiva non sapesse che farsene di chi ha agito con sobrietà e senso del dovere. Antonio Bonne è una di queste. Primo sindaco democraticamente eletto della Gorizia italiana, avvocato e giudice, fu protagonista di un brevissimo ma cruciale capitolo della vita cittadina. Poi il fascismo cancellò tutto, e con lui la possibilità di ricordare che, almeno per qualche mese, Gorizia fu amministrata da un uomo mite, colto e giusto.

Il 2 novembre 1922 — ovvero 103 anni fa — Bonne uscì dal Municipio di Gorizia con le lacrime agli occhi, costretto dai fascisti a rassegnare le dimissioni. Era stato eletto pochi mesi prima, nel febbraio dello stesso anno, quando il Gruppo d’Azione Friulano (una coalizione di liberali e agrari guidata da Giovanni Verzegnassi) ottenne la maggioranza con 1373 voti su 3610.

La città era allora un mosaico di tensioni: accanto al Gruppo d’Azione sedevano i rappresentanti della Concentrazione slovena, i popolari, i socialisti e i repubblicani. Bonne, moderato e rispettato, fu scelto come figura di equilibrio: parlava con tutti, non gridava con nessuno. Proprio per questo, - si diceva allora - agli occhi dei fascisti, divenne il simbolo di un’Italia “debole” da spazzare via.

Il suo mandato durò meno di nove mesi. In un contesto in cui le squadre d’azione guadagnavano terreno, le difficoltà amministrative — come la mancanza di energia elettrica — furono usate come pretesto per screditarlo. Quando la Marcia su Roma cambiò i destini del Paese, anche Gorizia ne fu travolta. A fine ottobre il prefetto Crispo Moncada sciolse la giunta Bonne e nominò un commissario. Si chiudeva così l’ultima stagione amministrativa libera prima dell’instaurarsi del regime.

Eppure, nonostante il silenzio che ne seguì, Bonne restò nella memoria di chi lo aveva conosciuto come un uomo giusto. Morì nel 1930, quasi ignorato, ricordato solo da una piccola donazione di 50 lire alla Croce Verde “in memoria dell’avv. Bonne”. Sua moglie Petronilla Contin lo seguì nel 1946; i loro resti, trasferiti nel 2001 nella fossa comune, sembravano destinati all’oblio definitivo.

Ho scelto di raccontare questa storia non come esercizio di ricostruzione accademica, - altri lo hanno fatto con serietà e rigore - ma come gesto di restituzione civile. Perché, dietro la figura istituzionale, c’era un uomo di legge, un cittadino onesto, un goriziano che credeva nella convivenza tra culture e quindi dovrebbe stare nella memoria viva della città.

Ricordarlo oggi, nell’anno in cui Nova Gorica e Gorizia sono Capitale Europea della Cultura, assume un valore politico e simbolico fortissimo. Bonne fu destituito anche perché la sua lista aveva raccolto il sostegno della rappresentanza slovena, in un tempo in cui la parola “convivenza” era considerata una debolezza. Oggi, a distanza di un secolo, celebrare quella scelta interetnica significa dare corpo allo spirito di GO!2025, che unisce due città e due culture dopo un secolo di divisioni. Mettere il suo ritratto nella galleria dei sindaci — là dove manca — sarebbe non solo un atto di giustizia, ma un segno tangibile di riconciliazione.

Ascoltare — e rileggere — questa storia oggi non è nostalgia, ma consapevolezza. È un invito a guardare Gorizia con occhi nuovi, riconoscendo che la sua forza, ieri come oggi, nasce proprio dai suoi confini.

L’immagine che accompagna questo testo è una ricostruzione digitale realizzata da un programma che usa la IA a partire da frammenti di foto storiche. Un modo per restituire un volto a chi la storia aveva lasciato nell’ombra.

Norma, Milojka e il confine della memoria

A volte basta leggere un nome su un muro per sentire che la storia è ancora lì, che non è passata. Le targhe, le vie, i monumenti non sono solo memoria: sono scelte, omissioni, compromessi. L'episodio di Voci dal Confine che ho pubblicato oggi nasce da due nomi, Norma Cossetto e Milojka Strukelj, e da una domanda che non smette di tornare: chi decide chi merita di essere ricordato?

In Friuli Venezia Giulia, per un vuoto normativo legato allo Statuto speciale, la competenza in materia di toponomastica è affidata esclusivamente alle giunte comunali. Significa che ogni amministrazione può decidere autonomamente chi intitolare, dove e perché. Un potere silenzioso, ma enorme, che negli anni ha generato contrasti, rimozioni, attese. Come quella per la targa ai Tolminotti in piazza Vittoria: un riconoscimento arrivato solo dopo anni di discussioni, quasi a ricordarci che anche le lapidi hanno bisogno di coraggio.

Da questo punto nasce l’episodio del podcast Voci dal Confine, dedicato a Norma Cossetto e Milojka Strukelj — due giovani donne travolte dalla stessa epoca, ma ricordate in modi opposti. Una vittima dei partigiani jugoslavi, l’altra dei nazisti con la complicità fascista. Una diventata simbolo, l’altra quasi dimenticata. Eppure, come sottolinea la storica Kaja Sirok, “nessuna delle due avrebbe voluto essere ricordata come martire, ma come donna del proprio tempo."

La memoria, allora, non è un monumento da difendere, ma un terreno da coltivare. Ogni targa, ogni nome, ogni scritta sul muro racconta più il presente che il passato: dice cosa scegliamo di vedere e cosa preferiamo ignorare. E forse l’unico modo per non restare prigionieri delle nostre memorie è imparare a leggerle tutte, senza paura.

🎧 L’episodio è disponibile su Spotify – Voci dal Confine https://open.spotify.com/episode/1zgUDrbvGFutBn9YxYjn2L?si=zVB2NHkvQIugEgUScXT0uQ

e youtube https://youtu.be/_V9peZk9rDE?si=A1YYKGM6qubI8sJR

Chi avrà la pazienza di arrivare fino in fondo al video su YouTube vedrà Norma e Milojka passeggiare sorridenti lungo viale XX Settembre. Mi piace pensarle così: due ragazze del loro tempo, finalmente libere di camminare una accanto all’altra.

Quando, in val Cavanata, il cielo si tinge di rosa

Ogni autunno, i fenicotteri tornano in Val Cavanata come vecchi amici che conoscono la strada a memoria.

Succede ogni anno, quasi alla stessa data, come un appuntamento che nessuno ha mai messo per iscritto ma che loro, i fenicotteri, non dimenticano. All’inizio di ottobre — quest’anno il 3 — la Valle Cavanata si è riempita di rosa: circa 1.200 individui sono tornati a popolare la riserva, trasformando il paesaggio in uno spettacolo che lascia a bocca aperta anche chi ci è già passato mille volte.

I visitatori, spesso, restano sorpresi: “Ma come… non ci sono d’estate?” No. Qui, i fenicotteri arrivano per svernare. I primi fanno capolino dopo Ferragosto, un gruppetto quasi discreto; a settembre il numero cresce… e poi, all’improvviso, ecco il colpo di scena: stormi interi planano sull’acqua, le ali spiegate, i richiami che riempiono l’aria.

Un viaggio silenzioso

Quasi tutti provengono dalle grandi colonie del Delta del Po e delle Valli di Comacchio. È lì che passano la primavera e l’estate, quando il sole allunga le giornate e il cibo abbonda. Nidificano, allevano i piccoli, si nutrono senza fretta.

Poi, quando la luce comincia a calare e l’autunno si avvicina, il messaggio è chiaro: è tempo di muoversi. Non servono mappe né navigatori — basta la luce, la temperatura, e quella sapienza antica che guida le specie migratrici da sempre.

Il segreto è nei fondali

Il loro cibo nasce dal fango e dalla luce. Sui fondali delle saline e delle lagune cresce una sottile “pelle” di cianobatteri e microalghe. È da lì che parte la catena: i minuscoli crostacei la brucano, e i fenicotteri brucano loro.

Con il becco capovolto setacciano l’acqua come minuscoli alchimisti, e ne ricavano tutto ciò che serve: energia, colore, vita. È grazie a questa dieta che il loro piumaggio si tinge di rosa: più nutrimento c’è, più il colore si fa intenso.

Quando le giornate si accorciano e la produzione naturale cala, devono cercare nuovi spazi. E così arrivano qui, dove le acque basse della Valle Cavanata offrono tranquillità e risorse per superare i mesi freddi.

Una presenza che scandisce le stagioni

Li si può trovare immobili, come statue, immersi nell’acqua fino alle ginocchia, oppure in volo, quando uno stormo si alza improvvisamente e il cielo si riempie di ali. Restano con noi fino alla primavera: verso la fine di aprile, quando la luce torna a farsi generosa, ripartono verso sud per ricompattarsi nelle colonie di nidificazione.

Andarli a vedere non è mai solo “birdwatching”: è assistere a un rito che si ripete, discreto ma preciso, ogni anno. Basta fermarsi, lasciar scorrere il tempo, e guardare. I fenicotteri fanno il resto.

La bellissima immagine è della fotografa naturalista, che abita a Grado, Margitta Thomann. Se non lo avete già fatto .... chiedetele l'amicizia su Facebook! In tal modo vedrete le sue magiche albe e tramonti, uccelli e .... a volte, teneri volpacchiotti.