Emilio Rigatti li ha
definiti gli alchimisti delle colline. Per me, ognuno di loro – anche se questo
può essere facilmente prevedibile in un piccolo territorio come Gorizia – è
legato ad un piacevole ricordo. In alcuni casi la memoria mi riporta addirittura
a fatti e momenti che risalgono alla mia infanzia ed adolescenza. Sono i
vignaioli di Oslavia. Quello sparuto gruppo di poeti visionari che hanno
creduto in un sogno: quello di realizzare il “vino vero”.
Poeti che si sono costituiti in associazione, tanto per dimostrare che l’adesione non è concessa a tutti ma soltanto a coloro che ne hanno sposato il credo. L’obbiettivo, del vignaiolo, mi diceva l’indimenticabile Stanko Radikon, è aiutare, con il lavoro agricolo, senza chimica, le radici della vite ad addentrarsi il più possibile nel suolo per potersi cibare dei minerali che rendono l’uva e poi il vino sapido, nutriente e originale. Ed è un “Credo” che va rispettato, quello che i francesi hanno chiamato il terroir. Ovvero un grande vino deve esprimere il terroir dal quale proviene. Insomma, un vino che sa di poesia.
Poeti che si sono costituiti in associazione, tanto per dimostrare che l’adesione non è concessa a tutti ma soltanto a coloro che ne hanno sposato il credo. L’obbiettivo, del vignaiolo, mi diceva l’indimenticabile Stanko Radikon, è aiutare, con il lavoro agricolo, senza chimica, le radici della vite ad addentrarsi il più possibile nel suolo per potersi cibare dei minerali che rendono l’uva e poi il vino sapido, nutriente e originale. Ed è un “Credo” che va rispettato, quello che i francesi hanno chiamato il terroir. Ovvero un grande vino deve esprimere il terroir dal quale proviene. Insomma, un vino che sa di poesia.
Prima ancora di conoscere
Stanko, avevo avuto modo di conoscere sua moglie Susy, per motivi di lavoro,
nei primi anni 80. Una coppia splendida con la quale ho avuto il piacere di
condividere tante emozioni. Dall’avvio dell’attività agrituristica, alla
confidenza dell’attesa di Ivana, la loro figlia più giovane, al termine di una
interminabile riunione di lavoro; alla mungitura dell’ultima mucca nella loro
stalla, alla degustazione dell’impareggiabile salame seduti attorno al tavolo
nell’accogliente cucina con frigo dispensa all’americana. Per non parlare della
bottiglia di Merlot, dall’inconfondibile etichetta turchese, che per tanti anni
ha completato il menu di Natale sulla mia tavola.
Credo, comunque, sia con
Dario Princic che posso vantare l’amicizia più antica. Ciò in quanto la nostra
conoscenza risale fin dagli anni 60 e deriva dal fatto che la sorella maggiore
era spesso ospite della nonna che abitava proprio di fronte a casa mia. Ricordo
ancora, come fosse ieri, le corse in bicicletta fino a Costabona per delle
scorpacciate indimenticabili di ciliegie. Ed in epoca più recente, la buona tartina
di prosciutto, in compagnia di amici, centellinando, durante l’apertura della
frasca, il vino vero.
Per Nico Bensa, contitolare
assieme al fratello Giorgio dell’azienda La Castellada, la questione è un po’
diversa, nel senso che è la sede della loro attività a rappresentare per ogni
goriziano, che ha da tempo superato gli “anta”, come me, un punto di
riferimento certo nei ricordi della propria gioventù. Dietro il sacrario di
Oslavia, proprio alla fine del curvone, c’era infatti l’osteria del “Pepi”,
luogo mitico di ritrovo a metà del secolo scorso, perché attrezzato con
calcetto e juke box. Un luogo, insomma, dove trascorrere piacevolmente interi
pomeriggi ascoltando musica e, a volte, ballare. C’è, poi, un altro fatto, che
credo di non aver nemmeno raccontato a suo figlio Nico. Ho scordato mese ed
anno, ma l’immagine del battagliero Giuseppe Bensa che restituisce la licenza
di esercizio, con rammarico perché – mi disse – i suoi figli non erano
intenzionati a continuare a gestire l’osteria, l’ho riposta – con tanta
tenerezza - nel cassetto dei miei ricordi.
C’è, poi, Josko Gravner. L’antesignano
dei poeti alchimisti di Oslavia, dei quali – tra l’altro - ne ha diffusamente parlato
Emilio Rigatti nel suo libro, (che consiglio vivamente di leggere perché raccoglie
e descrive i più ricchi tesori del nostro Collio/Brda) e che credo sia quasi
mio coetaneo. Io non so se a Oslavia c’è una sola famiglia Gravner produttrice
di vino. Ma se così fosse, al suo nome è legato uno dei più imbarazzanti
ricordi della mia gioventù. Neo diplomata geometra, una fredda giornata di
novembre del 1970, mi dichiarai disponibile ad aiutare un amico della locale sezione
CAI, per dei rilievi che doveva fare nella proprietà Gravner. Probabilmente impietosita
dal freddo o perché era l’ora dello spuntino, ci raggiunse in campagna una
gentile signora con una caraffa (lo ricordo perfettamente) di Riesling. Sarà perché
avevo mangiato poco o perché non ero abituata al vino, sta di fatto che ben
prima del tempo programmato per la conclusione dei lavori, dovemmo interrompere
i rilievi perché vedevo tutto storto. Insomma, ero stata una vera e propria
frana.
Pensandoci adesso, mentre
scrivo queste righe, mi rendo conto che ho dovuto parlare di me perché volevo
parlare di questi pionieri, pur non essendo una esperta di vini; della loro attività e della loro generosità. Non
dimenticherò, mai, ad esempio, la prima edizione di “Calici di stelle” che si
svolse in castello e alla quale dettero la propria adesione, mettendo a
disposizione, per una degustazione e gratuitamente, i loro preziosi vini. La
loro qualificata presenza fece sì che, sparsa la voce, giunse in castello un
numero considerevole di visitatori, al di sopra di ogni possibile aspettativa.
Tale da indurre la polizia stradale ad effettuare un sopralluogo per conoscere
il motivo della fila interminabile di macchine che proveniva da fuori città, in
una calda serata estiva.
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