Gorizia: appena un passo più in là dalla torta di ciliegie rosso sangue

Al principio fu infatuazione, ricordo i pomeriggi trascorsi su Youtube a cercare, guardare filmati e video su Gorizia, poi la prima visita di persona: nonostante fosse un novembre grigio e piovoso fu amore a prima vista; quello che prova la puerpera appena prende fra le braccia il cucciolo di uomo, paonazzo e smagrito per la fatica del parto ma, ai suoi occhi, per un funzionale eccesso chimico e ormonale, subito radioso e bellissimo. Forse una madre vede al di la della forma qualcosa che ha a che fare con il disegno spirituale che in ogni vita si cela. Così, anche senza i suoi giardini fioriti, lo spirito di questa città mi è apparso in tutta la sua potenza. Poi è iniziata la ricerca, curiosa di ogni aspetto: dalla cucina, ai palazzi, dalle piazze ai giardini, a coloro che questa città abitano ed hanno abitato, sempre avvertendo una eco lontana che mi suggeriva qualcosa che qui era stato ed ora sussurrava lieve come un vento appena accennato.

Dove oggi i visitatori poggiano spensierati i piedi, sulla targa di piazza Transalpina, che ricorda l'antico confine, divertiti da questa particolarità tutta goriziana, un tempo vi erano reti e postazioni di controllo e questa linea rossa segnava l'intera città snodandosi fra le strade, interrotta qua e là dai valichi. Dai racconti di un’amica goriziana ho appreso delle code per mostrare i documenti e poter passare il confine, era questa un’ esperienza che avevo fatto anche io, le tre volte in cui da Berlino ero stata portata nella “Ost Zone”. Cosi veniva chiamata, con un certo fastidio, la parte della città in mano ai sovietici, il cosiddetto settore orientale. Ero stata in coda anch’io, bambina, e ricordo bene la strana sensazione di avere accanto militari in assetto di guerra, piuttosto burberi e le tante squadre armate che giravano per Alexanderplatz, due mondi: da un lato la scarna austerità di una città socialista, i muri di molti palazzi ancora feriti dai proiettili dell'ultima guerra, dall'altro, a poche strade di distanza, la Berlino sfarzosa dell'imponente KaDeVe, il grande magazzino del lusso, nato nel 1907 per portare in città l'alta moda parigina, vero e proprio tempio del consumismo più sfrenato. Un piccolo mondo racchiuso, come quelle sfere di vetro che contengono un paesaggio miniaturizzato, circondato dal mondo reale, una dimensione segnata da una relazione schizofrenica, sempre in balia degli umori politici e di quanto “fredda” si facesse l'atmosfera; non ne comprendevo il motivo allora, ma ricordo molto bene i timori degli amici berlinesi, rinchiusi nella loro “riserva” e circondati da pressioni ostili.

Degli anni di Gottinga ricordo una coppia di professori, amici di famiglia, non dimenticherò mai la torta di ciliege dal sapore aspro e dolce insieme e dall'intensa colorazione rossa che spuntava formando macchie irregolari dentro la frolla friabile, con cui ci deliziava Tinka, la padrona di casa. Avevano finalmente, dopo svariati anni, raggiunto il traguardo della cittadinanza nello stato che li aveva accolti in fuga dalla Jugoslavia. Non so da che regione venissero della federazione, allora si diceva Jugoslavia e questo bastava, si sussurrava della loro fuga riuscita e di come la vita fosse tornata serena dopo lunga sofferenza.

Ho più volte notato che, dietro a discreta e composta bellezza si celi spesso altrettanta discreta e composta sofferenza e che sovente persone di grande umanità si portino nel cuore pesanti fardelli. Certe volte questi riescono a trasmutare, dalla notte buia, dalla nigredo di tormentate esperienze esistenziali ad una luce iniziatica di trasformazione. Si compie il passaggio alchemico verso la sublimazione del dolore, altre volte questo non accade, talmente profondo ed insopportabile il dolore da gettare ai limiti di se, verso la perdita della propria identità fino anche alla follia.< p> A Gorizia e a Nova Gorica ho avvertito riecheggiare un dolore sordo, lontano ma pure presente come un'ombra di Hiroshima, impronta stampata sui muri: polverizzato il soggetto, resta una traccia indelebile di quel passato dai risvolti talmente foschi da aver lasciato l'ombra silente di sè. Per cercare di comprendere una realtà tanto complessa ho dovuto gettare lo sguardo oltre quel confine che oggi non esiste più, ma che di tutto questo territorio ha probabilmente contribuito a forgiare la tempra. Ho fin da subito avvertito che vi era transitato il pesante fardello dell' identità nazionale, intesa come chiusura e operata attraverso la lingua e la rivendicazione di riconquiste e glorificazioni nazionali che troppo spesso, purtroppo, sono scivolate nelle atrocità del nazionalismo. La memoria è uno strumento identitario potente e sano purché si faccia portavoce di una sincera volontà di integrazione: una identità virtuosa dovrebbe declinarsi nell'accoglienza, nell'ascolto a e nell'apertura e la memoria stessa dovrebbe essere al servizio della messa in discussione della storia, solo così credo possa avere una funzione di vigilanza virtuosa contro tutti i risvolti autoritari e nefasti che da essa potrebbero scaturire.

Là dove la memoria resti viva, aderente alla realtà, le radici ben ancorate nella vita stessa nelle sue necessità più basiche: dal cibo, che non è mero alimentarsi, al modo di stare al mondo, come saper gioire e come soffrire, affrontare difficoltà, dolori immensi e piccole gioie quotidiane, perché è nell'osservazione delle anse esistenziali, in cui tutti ci muoviamo indistintamente che diviene chiara l'appartenenza ad una sola grande comunità umana. Questa osservazione ci risparmierebbe tante atrocità, nella semplicità della presa d'atto della comune storia che tutti i destini muove.

Gorizia è una città affacciata al balcone di un altrove e per un decina di giorni ha assistito da quella posizione, agli avvenimenti che ne avrebbero decretato la storia recente. Fu proprio in Slovenia infatti che il 27 giugno 1991 si compì il primo atto ufficiale di guerra, su territorio europeo, dal 1945. Episodio che decretò l'inizio della Guerra dei Balcani, quella che in Slovenia fortunatamente si protrasse per soli 10 giorni, ma che nei successivi quattro anni, porterà morte e distruzione in quei territori sgretolatisi dopo la caduta della Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia. Il 25 giungo del 1991 la Slovenia dichiara la propria indipendenza dalla Federazione jugoslava e due giorni dopo apre il fuoco contro l'esercito della JNA (Jugoslovenska narodna armija), nei cieli sopra Lubiana, colpendo due elicotteri dell'Armata Popolare Jugoslava. Ancora una volta, come già per la prima guerra mondiale, il centro radiante, la miccia che infiammerà il conflitto, allora ad opera di uno studente irredentista serbo, in nome della liberazione della sua terra dal dominio asburgico, avverrà in questi territori cerniera fra oriente e occidente.

La Slovenia con la tempestiva uscita dalla federazione è riuscita a limitare i danni con un conflitto lampo, definito la guerra dei 10 giorni, lo stesso purtroppo non è accaduto nelle altre regioni. La crescente radicalizzazione dovuta all’ impoverimento culturale e la mancanza di prospettive, sopratutto per i giovani, attori cui è rivolta particolare attenzione, in vista di strategie che pongano al centro dei loro interessi proprio questa importante categoria sociale. Con lo scopo di operare misure in risposta al terrorismo, alla radicalizzazione e all'estremismo violento nei Balcani occidentali, l'Unione Europea, attraverso progetti di cooperazione che hanno preso il via con il processo di Berlino del 2014, ha intrapreso negli anni iniziative in tal senso, ne è un esempio la Western Balkan Counter Terrorism initiative (WBCTI) che cerca di massimizzare le politiche di cooperazione regionale. Una parte dei progetti identifica i giovani come attori principali e proprio su questo segmento di società concentra i suoi obbiettivi: il potenziamento della resilienza, strumento ritenuto fondamentale in risposta e per l'attuazione di strategie atte a contrastare la minaccia estremista e questo attraverso operazioni volte ad aumentare opportunità formative ed economiche in quei territori, nella prospettiva di una graduale integrazione europea della regione balcanica.

Il dibattito è molto controverso e complesso e sono sprovvista di competenze adeguate per affrontarlo, tuttavia osservo uno slancio virtuoso nella collaborazione transfrontaliera, nell'ottica della cooperazione improntata a processi di ampliamento e collaborazione che scaturiscono da esigenze analizzate e riconosciute sul territorio. Ne è un esempio la strategia macroregionale EU Strategy for the Adriatic and Ionian Region ( EUSAIR) il cui fine è quello di affrontare coordinando insieme le esigenze dei diversi territori all'interno dei paesi partecipanti, tra i quali Italia e Slovenia. Una collaborazione specifica, all'interno della macroregione adriatico ionica, il cui obbiettivo generale è quello di promuovere la prosperità economica e sociale, affrontando insieme alcune sfide comuni. Gli obbiettivi, tutti volti alla sostenibilità ambientale attraverso strategie innovative in diversi settori: dalla mobilità urbana ai processi di trasformazione virtuosi dei sistemi produttivi, come anche l'incentivazione di un turismo consapevole e la creazione di tecnologie innovative per il contrasto ai cambiamenti climatici, dovrebbero, almeno nelle intenzioni, favorire una crescita armoniosa di tutti gli attori partecipanti. Il progetto è ambizioso, incontra ancora notevoli ostacoli sopratutto per la difficoltà di coordinamento dei vari soggetti. Ma la visione sussiste e, auspicabimente, anche l'impegno per la creazione di una nuova coesione sociale e territoriale nel cui quadro poter valorizzare le strategie macroregionali, per favorire l'integrazione e l'allargamento ad un più ampio respiro, superando barriere e confini, chiusure e introversioni terreno fertile di nuovi conflitti. Giovanna Campagna

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