I scarpez: un ricordo nel cuore per non temere il domani

Non mi sono mai fatta prendere dall’apprensione di un mondo robotico. Amo i film di fantascienza, Blade runner in primis, e non vivrò certamente tanto a lungo da paventare scenari angoscianti. Però qualche riflessione me la sono fatta un paio di giorni fa, dopo che una cara amica mi raccontava di aver trovato tra le cose della sua vecchia madre schemi e ritagli di quelle che sarebbero diventate degli scarpets.

La riflessione me la sono posta dopo che su un social mi è apparsa l’inserzione di due offerte commerciali che trattano la vendita, proprio delle friulane scarpets. Coincidenza? Insomma un milione di volte la fantascienza ha immaginato una Terra completamente automatizzata dove i robot collaborano con gli umani in ogni modo possibile. Insomma, sarà solo una questione di algoritmi e di funzionalità delle app scaricate sul cellulare, ma la pelle d’oca questa volta mi è proprio venuta. “Quale futuro abbiamo davanti? Di volta in volta dipingiamo un mondo robotico in cui le macchine ci aiutano a ripulire i danni che abbiamo fatto (WALL-E). O un risultato post-apocalittico di intelligenza artificiale che vede gli umani come una piaga da estirpare (Terminator). O ancora un mondo dove umani e robot coesistono pacificamente (L’Uomo Bicentenario)”. E molto interessanti, sotto questo punto di vista le considerazioni pubblicate sul sito Futuro prossimo Ma è proprio in funzione di un futuro incerto che recuperare la memoria storica delle cose ci può aiutare nella transizione. Una di queste è conoscere la storia delle scarpets che, per chi appartiene alla mia generazione, rappresenta un legame indissolubile con la nostra infanzia. Erano rosse, ad esempio, quelle che usavamo all’asilo.

“Sono figlia di madre carnica, ci racconta Lucia Calandra, e da bambina calzavo i scarpetz o scarpet (che dir si voglia) e, dopo di me, così hanno fatto le mie figlie, rigorosamente confezionati a mano da mia madre. I scarpetz (non uso l’articolo “gli” perché in carnico non si usa) sono ben radicati nella nostra tradizione. Nel senso che, di generazione in generazione, venivano tramandate tutte le nozioni valide al loro confezionamento. Anch’io ho imparato la procedura, ma non mi sono mai cimentata nella loro pratica esecuzione, perché la vita può essere più vorticosa di quanto te ne aspetti. Ben avvezze al motto: non si butta via niente, le donne carniche conservavano ogni ritaglio di stoffa di cotone (pecioz) che sarebbe potuto tornare utile, quale una parte ancora non lisa di vecchie lenzuola, camice o grembiuli ….

Per fare i scarpez di sovrapponevano molti ritagli di stoffa (flix, diceva mia madre), fino ad ottenere uno spessore di circa un centimetro. Il tutto veniva poi impunturato con lo spago, infilato in un ago robusto, dando a mano a mano, la forma della suola nella misura desiderata. Ricordo che mia madre passava lo spago su di un mozzicone di candela per renderlo più scorrevole ed agevolare quindi l’impegnativo lavoro. Alle volte, per rendere la suola più resistente, veniva attaccato un pezzo di copertone di bicicletta.

Terminata la impuntura si tagliava la forma desiderata e la rifiniva a punto “smerlo” per impedire le sfilacciature. Utilizzando, quindi, la sagoma di uno stampo di carta si ricavava, poi, la tomaia. Questa era rigorosamente di velluto, perlopiù di colore nero, ma poteva essere anche di altri colori, se veniva – ad esempio – utilizzato qualche vecchio paio di pantaloni, ormai inutilizzabili, di uno degli uomini di casa. La tomaia veniva, poi, rifinita con uno sbieco e cucito alla suola, un bottoncino di chiusura e la calzatura era pronta. I scarpez della festa venivano impreziositi da un ricamo; solitamente fiori e quelli di ogni giorno venivano usati in ogni occasione, per andare alla messa, come nei campi. Le calzature una volta avevano una loro storia ed un loro uso specifico. Ad esempio, se c’era fango nel cortile o si doveva andare nell’orto, si usavano “les dalmines”, zoccoli in legno e cuoio, simili a quelli olandesi. Ma questa è un’altra storia”

I scarpetz venivano usati anche per salire in montagna, come ben ci ha raccontato Ilaria Tuti nel suo prezioso Fiore di roccia. Prezioso perché ha riportato alla luce l’instancabile lavoro delle portatrici carniche e che in pochi conoscono davvero.

Ringrazio di cuore Lucia Calandra per averci resi partecipi di questo ricordo legato alla sua infanzia, alla madre, recentemente scomparsa e al nostro territorio bellissimo e ricco di storia.

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