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EDA I (1909) |
Italiani, popolo di santi,
poeti e navigatori. O meglio: popolo di eroi, di santi, di poeti, di artisti,
di navigatori, di colonizzatori, di trasmigratori. È la parte rimasta più
famosa di un discorso che Benito Mussolini pronunciò il 2 ottobre 1935 contro
la condanna all’Italia, da parte delle Nazioni Unite, per l’aggressione
all’Abissinia. Questa stessa citazione campeggia sulle quattro facciate del
Palazzo della Civiltà Italiana, o della Civiltà del Lavoro, uno splendido
edificio che si trova a Roma nel quartiere dell’EUR. E che Riccardo Bellandi
nel suo recentissimo lavoro “Mattei deve morire” ha utilizzato per ambientare l’avvincente
spy story.
Insomma, vista la millenaria
storia delle nostre terre, è certamente vero che ogni città ed ogni paese ha dato
i natali a qualche santo, poeta o navigatore. Ed è per questo motivo che la toponomastica va considerata per quello che deve rappresentare. Ovvero un bene culturale, perché è la memoria collettiva della storia dei
luoghi. Sta di fatto che, se fino a due secoli fa i toponomi non nascevano per
decreto del governo ma per generazione spontanea; perchè erano gli abitanti
della città a dare il nome alle vie, oggi, una riflessione va fatta. Soprattutto
partendo da una importantissima considerazione. Intitolare una strada o
una piazza ad un personaggio del passato più o meno recente significa inserirlo
nella memoria collettiva della Comunità e farne un tramite tra passato e
presente. In altri termini, la denominazione di una via o di una piazza altro
non rappresenta, infatti, che la testimonianza concreta di una memoria. E, in
quanto tale, un mezzo di trasmissione della storia. Nel senso che la targa
posta all’incrocio della via o affissa all’edificio (secondo la più classica
tradizione) aiuta ad esercitare la memoria storica. Ciò in quanto il nome
inciso sulla targa – se sconosciuto – non può che accendere la curiosità.
Ovvero quel nome scritto su quella targa è l’occasione per ricordare, o
conoscere o riconoscere epoche ed eventi più o meno lontani. In sostanza, è
possibile esercitare la memoria per entrare nella storia. Che, per quanto
riguarda Gorizia, è particolarmente complessa.
Nadia Ciani, autrice del
libro “Storie di donne nella toponomastica romana” uscito nel 2017 per Ediesse
ha affermato che “La memoria conferisce vivezza alla storia. Eppure, solo con
l’analisi storica e documentale è possibile comprendere l’origine degli eventi
e collocarli nel fluire del tempo, capire le cause e le conseguenze dei fatti
storici. Solo attraverso la lente della storia è possibile davvero penetrare
nel groviglio delle epoche passate e far sì che quel passato possa illuminare
anche la comprensione del nostro presente. L’attenzione alla storia permette di
formulare opinioni e giudizi consapevoli sulla realtà attuale e pure di gettare
uno sguardo lungo verso il futuro.”
A Gorizia, io credo, questo
sia ancor di più necessario, tenuto conto della complessità e quindi anche
della ricchezza del nostro territorio. Ed è per questo motivo che una
riflessione sulla toponomastica cittadina, presente passata e futura, andrebbe
necessariamente fatta, prima ancora di ragionare sulla opportunità o meno di intitolare
una via ai “Vegetariani”, come è stato di recente fatto nella zona artigianale
delle Casermette ed ignorare del tutto le origini goriziane dei fratelli Rusjan,
pionieri del volo, e che, giustamente, la nipote Grazia impegna ogni sua
energia per mantenerne vivo il ricordo. Fino al punto di farsi carico delle
spese per la costruzione e posa in opera di una targa ricordo posta sulla facciata
della casa di via Cappella 8 dove i pionieri del volo vissero.
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