Gorizia. La luce della città

Giovanna Campagna è ormai ospite fisa di questo Blog. E credo che, prima o poi, dovrò iniziare a considerarla co-responsabile. Spirito e passione tra lei e me si fondono in un tutt'uno per l'amore di questa città. E' con estremo piacere che, quindi, condivido queste sue emozionanti riflessioni.

"È quel che è.

È assurdo, dice la ragione

È vano, dice il giudizio È impossibile, dice l' esperienza

È quel che è dice l'amore.......

Ho preso in prestito alcuni versi da questa poesia di Erich Fried, perché con ciclica costanza sono ormai preda del "mal di Gorizia" che non cenna a diminuire, al contrario si fa sempre più pressante, in poche parole, non passa....

Allora nelle notti insonni risucchiata dal vortice dei pensieri, affacciata sul baratro di questo rischio esistenziale, del mollar la strada vecchia per la nuova e osando ipotizzare una avventura verso un altrove che mi chiama con insistenza, non posso esimermi dal seguire la sirena del mio cuore, che oramai pulsa al ritmo di Go, Go, Go, Gorizia! Cerco di razionalizzare e comprendere quale sia il canto cui Ulisse e i suoi tentarono di resistere, quale il motivo per cui poggiando il piede in suolo isontino, che avvenga alla stazione ferroviaria o scendendo dell'automobile, io mi senta così ineluttabilmente a casa; cosa mi rende questa città tanto cara? Un luogo può apparire bello, amabile, Gorizia di certo lo è per caratteristiche geografiche, composizione urbana, clima, abbondanza di verde cittadino, profusione di giardini, rilassatezza e atmosfera di altri tempi, ma tutto ciò non fa di un luogo "casa". Perché si compia questa apertura dell'anima occorre un sentimento che affondi le radici nel vissuto individuale, occorre che vengano riportate alla coscienza immagini della memoria, riposte sopite e silenti in un angolo remoto, ricacciate nel magazzino dell'oblio, lontano e ben protetto dalle incursioni della vita 'reale', confusa dalle incombenze quotidiane e assorbita dal succedersi del tempo ordinario.

Ecco, Gorizia a quel tempo sempre mi strappa e mi consegna ad un luogo altro, più distante dall'operosità del vivere e tanto più vicino all'essenza del farlo. Si moltiplicano i tuffi nei ricordi, come se si fossero aperti dei canali di percezione nuovi, visioni antiche e presenti si sovrappongono, in un cortocircuito della mente che me la fa amare e desiderare sempre più, nella presenza e nella lontananza. Nella grande casseruola del ricordo le immagini si mescolano ai profumi, alla luce, ai sapori. Nei primi anni di vita le percezioni, come le esperienze, si fissano indelebilmente trasformandosi in quel bacino di pesca della nostalgia infantile. Il mio sgardo interiore è calibrato sui verdi intensi dei boschi tedeschi, dei parchi nordici e sopratutto della paricolare luce fredda e uniforme che caratterizzava allora, prima dei mutamenti climatici che molto hanno modificato, i cieli della Bassa Sassonia.

Niente a che vedere con l' impertinente intensità della luce mediterranea; al verde scuro del Wald ( bosco) tedesco, ho sostituito, negli anni, gli ocra delle terre argillose, i gialli intensi delle mietiture, i filari delle vigne e le dolci colline toscane, il frinire al vento delle foglie argentee negli uliveti, il mondo che ha accolto la mia fanciullezza. Ma nei primi anni ho incontrato la brezza fresca del nord e, da sempre, solo lei è capace di risvegliare in me un senso di pace ed appartenenza. Questa luce diafana mi ha accolta a Gorizia nel suo autunno brumoso e anche nei primi freddi invernali, quando il tepore di una zuppa calda scalda i sensi e rinvigorisce l'animo. L' incontro con la Jota è stato un tuffo al cuore, vera e propria madeleine Poustiana, al primo assaggio di questa fumante e confortevole zuppa, dal profumo intenso e dal gusto deciso, il balzo temporale è stato immediato.

Prima infanzia, la casa della famiglia Schäfer si affacciava sul parco dello Schillerviese nella cittadina di Göttingen, dove mio padre teneva corsi di lingua italiana presso la locale università. Mi tornano alla mente i lunghi pomeriggi in casa Schäfer, trascorsi con Ernst, il mio "nonno adottivo", professore di archeologia paleocristiana in pensione, ad ascoltare il racconto delle malefatte di Max und Moritz, i due discoli nati dalla sagace penna di Wilhelm Busch. L’opera, pubblicata nel 1865, divisa in episodi e corredata da illustrazioni, è considerata antesignana del fumetto ( ai due birbanti si ispirò, fra gli altri, una trentina di anni dopo, Rudolph Dirks immigrato tedesco in America, per i suoi Katzenjammer, in italia tradotti e pubblicati sul Corriere dei Piccoli come Bibì e Bibò). Mentre mi lasciavo felicemente impressionare dalle suggestioni noir, di questo libro educativo per l'infanzia, privo del rassicurante epilogo del nostro patrio Pinocchio, redento e salvato dal suo creatore, (per i due bambini Busch riserva infatti un finale spietatamente grottesco), o durante strimpellate strampalate, che mi era permesso di eseguire al loro pianoforte, dalla cucina giungeva il profumo stuzzicante della zuppa che borbottava senza fretta sul fornello. Leggenda di famiglia vuole che Suppe ( zuppa) sia stata la mia prima parola.

Sempre secondo i racconti di casa si narra che, al richiamo di Ursula, la signora Schäfer, io accorressi rapidissima e che questa zuppa, dal sapore deciso, fosse uno dei miei piatti preferiti, alquanto insolito per una bimbetta ancora alle prese con lo svezzamento! Erano gli anni 70, ho dovuto attendere 50 anni prima di poterla ritrovare, la mia "Weißkohlsuppe", declinata nella variante goriziana della Jota con i "capuzi garbi" ed è stato subito riconoscerla. E ancora il "Mohnstrudel" ( strudel di papavero) ritrovato, con alcune differenze, nella Putizza ( Potica in sloveno) dolce che, nella variante ai semi di papavero, ed in innumerevoli altre declinazioni, si ritrova in tutte le tradizioni culinarie della pasticceria mitteleuropea, esempio di quelle contaminazioni gastronomiche, nonché sintesi in chiave pasticcera di quell' incontro di civiltà che fa del territorio goriziano l'insalatiera di etnie, punto di convergenza di differenti flussi culturali, che qui sono riusciti a catalizzare un processo di fusione e incontro in tempi brevissimi, nemmeno 20 anni! Dopo l'abbattimento del muro/recinzione, attraverso una viruosa calibratura dei bisogni reciproci, motivata da un forte desiderio di integrazione e scambio, la popolazione è riuscita nell'intento di realizzare quella convivenza, preziosa e costruttiva, il cui riconoscimento sarà celebrato a breve.

Premiata dunque, a ragione, proprio in virtù della sua molteplice appartenenza culturale, Gorizia è riuscita ad evolvere, trasformando il proprio assetto multietnico, nel suo punto di forza. Un esempio auspicabilmente seguito da altri territori di confine che questo passaggio faticano ancora a compiere. Una complessità culturale e linguistica che i suoi abitanti hanno mutato, da motivo di sospetto e divisione, in luogo dello scambio proficuo e della contaminazione virtuosa e creativa. Come in cucina cosi nella vita dunque vale sempre il principio che sperimentare conduce a ottimi risultati e che, come soleva affermare l'Artusi, nel “mescolare quanto basta” risieda la buona riuscita di ogni ricetta."

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