Un museo della moda a Villa Louise? Una proposta che viene dalla scuola

A volte, per guardare avanti, basta ascoltare chi lavora nel silenzio. Nel nuovo episodio del mio podcast *Voci dal Confine*, ho avuto il piacere di conversare con Elisabetta Loricchio, docente presso la sezione moda del Cossar Da Vinci di Gorizia. Una scuola viva, concreta, dove ogni giorno si costruisce futuro con pazienza e dedizione. Nella sezione moda si lavora con le mani e con la testa.

Gli studenti – e non solo le studentesse – imparano fin dalla prima superiore a ideare, progettare e realizzare capi di abbigliamento e accessori, partendo da uno schizzo e arrivando alla confezione finale.

Si usano macchine da cucire professionali, si studiano le tecniche sartoriali, il disegno, la progettazione e la storia delle arti applicate.

Ma non è solo una scuola tecnica: è un luogo dove si sperimenta. Si lavora con materiali riciclati, si costruiscono borse di stoffa, si incolla la sabbia sulla carta per creare texture sorprendenti.

Ogni anno, una sfilata interna mette in mostra questo lavoro corale: gli abiti realizzati dagli studenti sfilano sulle note scelte e montate dalla sezione cultura e spettacolo. È una festa, ma è anche un segno di competenza.

Da questa esperienza così ricca e concreta nasce, con la semplicità delle cose giuste, una proposta: perché non spostare il museo della moda, oggi sacrificato a Borgo Castello, nella vicina Villa Louise?

Una sede ampia, luminosa, a pochi passi dalla scuola. Un luogo che potrebbe diventare un vero centro culturale delle arti applicate, in dialogo con le scuole, con il territorio, con le nuove generazioni.

Villa Louise è attualmente in fase di restauro grazie a importanti fondi regionali. È di proprietà della Fondazione Coronini, e proprio nei giorni scorsi il direttore – in un’intervista apparsa sulla stampa locale – ha dichiarato che la struttura verrà “messa a reddito” una volta ultimati i lavori, attraverso affitti da incamerare.

Lo dico con rispetto, ma anche con chiarezza: se i fondi sono pubblici, è legittimo domandarsi a chi sarà destinato lo spazio una volta finiti i lavori. Non si tratta di contrapporre privato e pubblico, ma di ricordare che il bene comune non è un concetto astratto: è fatto di luoghi, scelte, priorità.

Una parte di quella villa potrebbe davvero accogliere il museo della moda.

Potrebbe diventare uno spazio di bellezza accessibile, capace di raccontare il lavoro degli studenti, il valore della scuola, la ricchezza dei saperi artigianali.

In questi anni di preparazione a GO!2025, si è parlato tanto di cultura.

Ma la cultura vera – quella che resta – è fatta anche di bottoni cuciti a mano, di gonne disegnate su carta velina, di laboratori rumorosi e sfilate inventate in classe.

Ascoltare queste realtà è già un modo per ripensare Gorizia.

Forse, anche per amarla di più.

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Nazario Sauro: quando la patria non è la stessa per tutti

Quando ho comprato casa in via Sauro, qualche anno fa, non sapevo bene chi fosse l’uomo che dava il nome alla mia nuova strada. Mi piaceva il palazzo anni ’30, i soffitti alti, il portone in legno massiccio. E mi piaceva il suono di quel nome, “Sauro”, breve e deciso. A Gorizia siamo abituati a vie che raccontano storie di confine e di irredentismo: Oberdan, Mameli, Battisti… nomi che evocano un’Italia da conquistare o da difendere, a seconda di chi li pronuncia. Ma di lui, di Nazario Sauro, non sapevo quasi nulla.

Oggi, sfogliando il giornale, leggo che domani a Trieste lo celebreranno come eroe nazionale. Allora mi fermo. Lo cerco, lo leggo, lo scopro. E capisco che la sua storia è un confine in sé: per alcuni un simbolo di coraggio e lealtà, per altri un nome da maledire.

Nazario Sauro era nato a Capodistria, quando apparteneva all’Impero austro-ungarico. Suddito fedele sulla carta, irredentista nell’animo. Allo scoppio della Prima guerra mondiale attraversò il mare e si arruolò nella Regia Marina italiana, combattendo contro lo stesso impero che gli aveva dato la cittadinanza e che governava la sua città natale. Per Vienna, un traditore da processare e impiccare. Per l’Italia, un martire da onorare e imitare.

E dietro questa scelta c’era anche una vita familiare. Sauro era sposato con Anna De Rin e aveva quattro figli: Nino, Italo, Libero e Anita. Quando partì per l’Italia nel 1915, sapeva che difficilmente li avrebbe rivisti. La moglie, rimasta a Capodistria, visse sotto la stretta sorveglianza delle autorità austriache, subendo pressioni e privazioni. A poche ore dall’esecuzione, scrisse al figlio maggiore Nino una lettera che è rimasta nella memoria collettiva: “Caro Nino, quando saprai che tuo padre è morto per la sua patria, tu devi esserne fiero.” Una frase che racchiude l’essenza del suo sacrificio e la consapevolezza del dolore che lasciava dietro di sé.

E qui si apre la domanda che mi ronza in testa: la patria è quella scritta sul passaporto o quella che batte nel cuore? Lo Stato pretende fedeltà alle proprie leggi, ma l’individuo può scegliere di essere fedele a un’idea di patria che esiste solo nella sua visione. Da un lato, il codice militare: tradimento. Dall’altro, la storia scritta dai vincitori: eroismo.

Sauro non è un caso isolato. In molte storie di confine, soprattutto qui, l’eroe di una parte è il traditore dell’altra. Basta cambiare prospettiva, spostarsi di pochi chilometri, per vedere la stessa vita raccontata al contrario. E la memoria pubblica, con le sue targhe, le sue cerimonie, i suoi monumenti, sceglie sempre una versione sola, quella che si vuole tramandare.

A Gorizia, dove ogni pietra conosce due versioni della stessa storia, questo non sorprende. Ma a volte mi chiedo quanto perdiamo quando riduciamo una vita a una parola incisa su una lastra di marmo: “eroe” o “traditore”. Forse la verità sta nel mezzo. Forse la patria è un luogo che, quando la scegli, ti chiede di rompere con un’altra patria. E forse la memoria, più che un ricordo, è una scelta di campo.

Forse la soluzione sta nel raccontare entrambe le versioni, senza paura che si contraddicano. Onorare il coraggio senza santificare, e trasformare ogni via, ogni monumento, in un punto di partenza per un dialogo, non in un altare muto. Perché solo così, forse, potremo imparare che la storia non ha una sola voce, e che anche i nomi incisi sul marmo hanno bisogno di essere ascoltati da più lati.